Thant Myint-U è uno storico birmano. Di recente ha tenuto incontri e conferenze in Italia. Lo abbiamo incontrato a Roma alla Casa delle letterature.

Sul nuovo corso birmano peseranno le influenze dall’esterno, in particolare quella cinese. In che modo il nuovo governo gestirà il rapporto con la seconda potenza mondiale?
La Cina ha un ruolo imponente nell’economia del Myanmar, ufficialmente si parla di alcuni miliardi di dollari, ma probabilmente parliamo di molti più soldi, anche 10 miliardi, più di quanto si sappia. Oggi la Cina non è più un investitore importante come era un tempo; il Giappone oggi investe di più. La Cina aveva rapporti diplomatici molto forti con il precedente governo militare cui forniva molte strutture di sicurezza, specie a causa delle sanzioni imposte dalle Nazioni unite. Oggi sono state recuperate le relazioni diplomatiche con l’Occidente, è stato invitato Obama, Abe e ora la Cina è ansiosa al riguardo. Pechino si chiede in che modo il Myanmar regolerà le proprie ambizioni diplomatiche, se continuerà ad allontanarsi da Pechino aprendo ai paesi occidentali. Aung San Suu Kyi ha detto che vuole avere buone relazioni con la Cina, ma cosa significhi non è dato saperlo. Il suo partito è popolare e nel programma è data grande enfasi alle riforme economiche, alla protezione ambientale. Sono aspetti molto importanti e quindi sarebbe molto difficile muoversi in una direzione «cinese», ma ci sarà un dialogo con Pechino. La Cina ha messo in chiaro il suo progetto economico e la sua volontà di contare in Myanmar, ma credo che le volontà dei due paesi siano diversi, benché si possano incontrare.

Il Myanmar può diventare come tanti altri paesi asiatici, ad esempio il Vietnam, una «piccola Cina», in termini di modello di sviluppo?
Ovviamente quello è un modello che potremmo definire asiatico e che per certi versi precede la Cina, lo utilizzarono anche il Giappone e la Corea, sviluppando economia con il basso costo della manodopera: anche il Myanmar si muoverà in quella direzione. Il Vietnam è l’esempio più recente. Non credo che il Myanmar farà qualcosa di molto diverso. Ma ci sono alcuni aspetti differenti: ad esempio l’attenzione all’ambiente e l’aspetto religioso. Allo stesso tempo il paese è molto povero e quindi si dovrà fare così, forse aumentando l’export specie in alcuni settori come quello del tessile o della carta che deriva dalla produzione di legname; poi c’è il discorso delle risorse, un progetto più a medio-lungo termine, mentre nell’immediato credo che manifattura e la necessità di regolare il settore agricolo saranno le priorità. Poi c’è un tema che spesso non si tiene in considerazione, le rimesse degli espatriati. Abbiamo almeno 3 o 4 milioni di birmani che lavorano in Thailandia, così come Malesia, Singapore e questi sono soldi che tornano indietro e finanziano le famiglie locali.

Il ruolo dei militari oggi che incidenza ha?
Il Myanmar non va pensato come un paese dopo una rivoluzione, ma al centro di un lento cambiamento avviato in 20 anni. Soprattutto a causa delle sanzioni occidentali ha finito per svilupparsi una sorta di oligarchia in seno alla classe militare, che ha a che vedere con le armi, la sicurezza, il potere sia politico sia economico. Un vero e proprio business partner nell’economia del paese. Negli ultimi 5 anni hanno dominato l’economia, parliamo di istituzioni militari, collegati tra loro, con ex generali che sono a capo delle compagnie più importanti del paese. Dal punto di vista politico c’è stato invece un cambio generazionale, i vertici oggi sono più giovani e stanno cercando di capire quale sarà il loro futuro, cercando di inserirsi in questo processo come garanti dello stato e della costituzione da influenze o poteri esterni. Non credo rinunceranno a questo ruolo, specie perché in alcune zone ci sono ancora dei conflitti e costituiscono una presenza considerata parecchio rilevante. In alcune aree, come nel nord est del paese, l’esercito è ancora fondamentale ma più in generale gestisce ancora larghe fette della vita amministrativa locale del paese. Dobbiamo capire che il Myanmar non è un paese che vive la situazione di una post-rivoluzione popolare. L’esercito non è marginalizzato, anzi conta ancora molto politicamente nel paese. E quindi ora cerca di capire come inserirsi al meglio in questo processo.

C’è poi il grande problema dei Rohingya, la minoranza musulmana, sul quale anche The Lady ha ricevuto critiche, perfino dal Dalai Lama.
Ha ricevuto critiche e non credo siano arrivate ingiustamente perché la sua posizione al riguardo è stata ambigua. In teoria – va detto – c’è la volontà di prevenire violenze e garantire la pace. La priorità è quella di tenere la comunità in pace, ma di fatto i musulmani sono stati messi in veri e propri campi di detenzione. Serve una discussione molto seria e ora che tutto sembra più tranquillo serve una soluzione. Ma non è stato fatto ancora niente e il problema non è solo quello di garantire a queste persone la cittadinanza ma creare davvero un processo di integrazione.

In che modo il partito della Lady può creare una sua classe dirigente per il futuro?
C’è molta speranza nel partito e si sente la necessità di creare una classe dirigente anche per il futuro. Se non comincia una transizione per il partito sarà difficile vivere oltre Sang suu kyi. Ma ci sono molti giovani, con energia, che hanno intenzione di giocarsi la partita, anche perché c’è un enorme supporto popolare ci sono aspettative enormi ma ci vuole pazienza, perché il paese sta cambiando in modo clamoroso.