Qualche giorno fa avevo promesso al manifesto un articolo sulla difficile situazione delle biblioteche pubbliche inglesi, alle prese con i pesanti tagli del governo conservatore. Tagli all’origine di un movimento di protesta che ha portato alla clamorosa occupazione di alcune biblioteche e che ha avuto il sostegno di un’ampia fetta della società civile.

Nel frattempo, però, il dibattito sulle biblioteche è diventato incandescente anche qui in Italia e mi ha coinvolto personalmente in quanto membro – ora dimissionario – del Comitato biblioteche e istituti culturali del Mibact. Il dibattito italiano non riguarda in questo caso i tagli (che ci sono stati, pesantissimi e distruttivi, negli anni passati: bisogna dare atto al governo, e nello specifico al ministro Franceschini, di aver invertito questa tendenza con i maggiori investimenti previsti per archivi e biblioteche nell’ultima legge di stabilità). Riguarda però un aspetto non meno rilevante: la dotazione di personale delle biblioteche statali, a sua volta elemento essenziale nel determinare la situazione complessiva del nostro sistema bibliotecario.

La situazione di organico del comparto dei Beni culturali è in grave, gravissima sofferenza. In molti casi, certo non solo in ambito bibliotecario, strutture e servizi essenziali faticano non già a lavorare con ragionevole efficienza, ma a sopravvivere. La decisione di avviare una procedura concorsuale per funzionari dei Beni culturali era attesa da tempo, e – nuovamente – va dato atto al ministero di averla avviata: i cinquecento posti previsti dal bando non bastano a colmare le carenze, ma sono un primo segnale positivo.

I posti previsti per la professionalità bibliotecaria sono, però, solo il 5% di quelli messi a concorso. Una decisione che il ministro ha giustificato con criteri tecnici (la ripartizione proporzionale fra le varie professionalità, sulla base della dotazione di organico determinata nel 2015), presentati come la sola scelta possibile ed equa. La convinzione che ha portato alle dimissioni di Giovanni Solimine dal Consiglio Superiore dei beni culturali, e dell’intero Comitato tecnico di settore, presieduto da Mauro Guerrini e che oltre a me comprendeva Luca Bellingeri e Paolo Matthiae, è che la scelta fatta non solo non fosse l’unica possibile, ma rappresentasse un grave errore sia tecnico, sia politico.

Un errore tecnico, perché: a) la determinazione fatta nel 2015 non era il risultato di un disegno organico ma si limitava a fotografare un dato di fatto a sua volta legato a scelte – spesso scellerate – fatte negli anni precedenti; b) quella stessa determinazione si riferiva sì alle figure professionali, ma non al loro impegno concreto: oltre un terzo di tali figure viene utilizzato in contesti diversi da quelli delle biblioteche statali; c) la valutazione del 2015 è già largamente superata e lo sarà a maggior ragione nel 2017, quando i vincitori del concorso prenderanno servizio, anche perché l’età media dei bibliotecari è di gran lunga la più alta dell’intero comparto dei Beni culturali (e questa, ovviamente, non è una buona cosa); d) la trasformazione delle soprintendenze archivistiche in soprintendenze archivistiche e bibliografiche, operata quest’anno, modifica notevolmente la situazione del 2015 e richiede nuove figure con competenze bibliotecarie, che al momento non ci sono. E una riforma di questo tipo, senza le necessarie competenze, rischia di trasformarsi in un disastro.

L’errore tecnico diventa così errore politico (purtroppo, non l’unico: aver tolto ad alcune biblioteche anche di grande rilievo la piena autonomia, riconducendole sotto la direzione di un polo museale è mossa che aiuta forse a mascherare le carenze di organico dirigenziale, ma non certo la funzionalità e la progettualità specifiche che dovrebbero caratterizzare le istituzioni bibliotecarie). E denuncia l’assenza, in un settore vitale per il nostro sistema culturale, di un disegno complessivo, che è invece assolutamente necessario.

Per fermare il declino del mondo delle biblioteche occorre, insomma, affiancare all’impegno finanziario un disegno strategico e competenze professionali specifiche e in parte nuove: le biblioteche non sono affatto rese inutili o obsolete dall’avvento del digitale, a patto di ripensarle non solo come soggetti individuali di conservazione e accesso fisico (dimensione comunque imprescindibile), ma anche come rete di servizi avanzati di alfabetizzazione, mediazione e disseminazione informativa, tanto sul territorio quanto on-line. Servizi che occorre costruire e gestire con le necessarie competenze e capacità decisionali. Qualche mossa in questa direzione il Governo l’ha fatta: il fatto che il Miur abbia inserito le biblioteche scolastiche fra le azioni strategiche del Piano nazionale scuola digitale – dopo troppi anni in cui alle biblioteche scolastiche e al rapporto fra biblioteche e scuola, essenziali per la formazione di indispensabili competenze di cittadinanza, non erano state dedicate né attenzione né risorse – è sicuramente un passo importante. Al quale dovrà però seguire, anche in questo caso, un lavoro sulle competenze. In Italia non abbiamo la figura del bibliotecario scolastico (figura di collegamento fra le funzionalità di mediazione informativa proprie del mondo bibliotecario e quelle di mediazione formativa proprie della scuola e della professionalità docente).

Riusciremo – certo per gradi – a garantire al mondo della scuola anche figure di questo tipo, tanto importanti nei migliori sistemi formativi a livello internazionale? L’azione sulle biblioteche scolastiche del Pnsd può essere l’occasione per avviare la formazione mirata di un primo nucleo di referenti: se progressivamente si riuscisse a trasformare questi referenti in figure specifiche, garantendo la presenza di un bibliotecario scolastico almeno a livello di reti di scuole, si sarebbe compiuto un altro passo importante.

Le questioni sul tappeto come si vede sono molte, e di non facile soluzione. A volte, anche le dimissioni possono essere lo strumento per segnalare l’urgenza di affrontarle, e di affrontarle con determinazione. In logica, dalla necessità discende automaticamente la possibilità. In politica, invece, non è affatto scontato che quel che è necessario sia anche realizzabile: spesso, anche il necessario va conquistato.