«Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…chi ha dato, ha dato, ha dato…scurdàmmoce ‘o passato…», così recita un famoso motivo napoletano: sembra pensato apposta per la triste vicenda radiotelevisiva italiana.
Tra gli ultimi accadimenti, va segnalato il saldo invernale applicato ai canoni dovuti per l’utilizzo delle frequenze televisive.

Lo scorso 19 gennaio è stato pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale il decreto del governo, in base al quale gli operatori sono tenuti al pagamento del 40% (sì, solo…) dell’ammontare previsto dalla legge finanziaria del 2000. Si trattò, allora, di dare una parvenza di dignità ad un settore protetto dalla concentrazione duopolistica, con Mediaset a fare la parte del leone.

Da una cifra irrisoria prevista dalla legge Mammì del 1990 (400 milioni di vecchie lire per rete nazionale), si passò all’uno per cento del fatturato – circa 40 miliardi, sempre di vecchie lire.

E ora? Eccoci in un rivolo delle larghe intese, con l’abiura di ogni riferimento al conflitto di interessi. Il 30 settembre dell’anno scorso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni varò una delibera – a maggioranza- che interpretava le disposizioni di una legge del 2012 del governo Monti nel senso di omologare il pagamento dei canoni dell’età digitale alle regole delle telecomunicazioni. E così, si abbassava considerevolmente l’importo, paradossalmente in modo inversamente proporzionale alla forza economica dei soggetti.

Il Ministero dello sviluppo, premuto dalle proteste, dichiarava successivamente di voler rivedere la scelta dell’Agcom, anche per rispondere alle indicazioni europee. Ed eccoci alla misura del 29 dicembre scorso, appena entrata in vigore. Rimane provvisoriamente in vigore la vecchia normativa, ma con uno sconto considerevole.

Adesso chissà. Tira aria di ricorsi, magari di rinvii. Tanto per cambiare.

Mentre stanno chiudendo i battenti giornali cooperativi ed emittenti locali, i grandi la scampano in un modo o nell’altro. Con buona pace del pluralismo e della blasonatissima cultura della concorrenza. Se ne parlò già nella puntata dell’8 di ottobre del 2014 di «Ri-mediamo»: ma al peggio non c’è limite. Infatti, alla già surreale storia dei canoni fa da pendant l’articolo inserito nel decreto «mille proroghe», che rinvia al primo luglio 2016 la data dell’entrata in scena del digitale terrestre di ultima generazione –Dvb T2- e fa slittare i termini per accedere ai crediti di imposta finalizzati alla copertura del territorio con la banda ultralarga.

Usciamo dal linguaggio un po’ criptico. Stiamo parlando del rinvio della conclamata «rivoluzione» di cui il presidente del consiglio ha parlato a destra e a manca. Altro che Agenda digitale. Penultimi in Europa, corriamo il rischio di indossare la maglia nera. Non solo. Un tempo l’industria italiana era all’avanguardia nell’elettronica di consumo. Il Centro di ricerche della Rai di Torino ha scritto capitoli cruciali dell’innovazione; come l’omologa struttura di Telecom o la Fondazione Bordoni, quest’ultima persino in vacatio di direzione.

Ma, evidentemente, il digitale è gestito come un brand pubblicitario, mentre è la miscela autentica della stagione del capitalismo cognitivo.

E non è finita.

Per avviare la nuova fase tecnologica servirebbe la banda 700, piccolo tesoro di cui una buona parte detenuta da Mediaset, che l’Europa assegnò alla telefonia. Insomma, la televisione non si tocca, che Berlusconi governi o stia (per finta?) all’opposizione.

È il lato B (leggi Biscione) del mitico «patto del Nazareno»? Anche il digitale è rottamato?