“Our Brand is Crisis” il film di David Gordon Green che uscirà a febbraio (ma dietro al progetto c’è la Section 8, società produttrice di George Clooney) adatta al grande schermo una storia già raccontata nel 2005 dall’omonimo documentario di Rachel Boynton: l’operato dei consulenti di immagine americani nella campagna presidenziale del 2002 in Bolivia. Gli strateghi elettorali giunti da Washington coi loro sondaggisti e registi di spot non arrivano coi marines ma la «democrazia» che esportano è altrettanto aliena di quella che i loro predecessori più tradizionalisti sponsorizzavano con regimi military. Il film di Clooney interpretato da Sandra Bullock e Billy Bob Thornton, mira alla satira politica liberal plasmata su esempi più ispirati, I Colori della Vitoria (Primary Colors) di Mike Nichols, ad esempio, o Sesso e Potere (Wag The Dog) di Barry Levinson, ma soccombe ad un moralismo fatto di formule e a personaggi francamente meno «da film» degli originali. Il documentario restituisce insomma una fotografia molto più strabiliante della politica mercenaria di era post-idelogica e dei meccanismi di egemonia soft e finanziaria del nostro presente.
Il documentario apre con un comizio di Gonzalo Sanchez de Lozada detto Goni, un uomo d’affari cresciuto negli Usa, già presidente per un mandato (‘93-‘97) durante il quale ha istituito un principio di welfare e soprattutto avviato la «capitalizzazione», l’apertura delle aziende agli investimenti esteri, iniziative che ne fanno un beniamino degli organi finanziari internazionali. «Siamo davanti a una crisi profonda» arringa Lozada davanti alla folla, «ma col mio piano sapremo uscirne».
È la dottrina che di li ad un paio di anni avrebbe descritto Naomi Klein nella sua Shock economy: lo spettro della crisi è il branding della campagna, il messaggio di base che, come vediamo nella scena successiva, in cui Goni telefona ai suoi consulenti a Washington, il candidato ha «acquistato» in pacchetto da una grande società di consulenze elettorali. All’altro capo del telefono Jeremy Rosner, responsabile della campagna Lozada per la Greenberg, Carville and Shrum, istruisce il candidato sulle prossime mosse. La GCS , come spiega in seguito lo stesso Rosner è un’«azienda di consulenza politica full service, al servizio di leader dinamici in tutto il mondo», il sodalizio di tre guru del settore: Bob Shrum, Stan Greenberg e James Carville, tutti con impeccabili credenziali liberal. Il film ne illustra i metodi e gli obbiettivi ed è una folgorante radiografia della concezione geopolitica Clinton-Blairiana. L’elezione è quella del 2002, nella prima amministrazione Bush allora tutta protesa in nation-building da metodi più sbrigativi in Iraq, ma la proiezione di influenza americana è più vicina a quella dei Clinton – Bill, e, tuttora, Hillary.
«Crediamo di esprimere l’idealismo americano», spiega Rosner, «vogliamo modernizzare i paesi che serviamo. Appoggiamo candidati con piattaforme socialdemocratiche e progressiste a base di servizi pubblici». Gli illuminati specialisti della GCS non impongono la democrazia con le bombe ma la vendono come un nuovo farmaceutico, con marketing e focus group. «Lavoriamo per candidati che vogliono impiegare la globalizzazione come forza modernizzatrice dei loro paesi» insiste Greenberg, «il New Labour in Inghilterra, e in questo caso Goni in Bolivia». È politica estera progressista per profitto» conclude Rosner con spirito missionario-corporativo.
Quando i loro jet privati atterrano a La Paz sono carichi di tutti gli ultimi ritrovati per la «gestione del consenso»: sondaggisti, focus group, specialisti di spot pubblicitari e perfino il capo, James Carville, lo stratega della war room clintoniana, una superstar del settore, che nel suo primo incontro col candidato spiega «Come ogni storia un’elezione deve avere una premessa, un confliltto e una risoluzione»; formula da blockbuster hollywoodiano dunque, e Carville si mette all’opera per fabbricare la «narrazione» vincente per il suo uomo: prospettare l’imminente collasso ecnomico e presentare il candidato come l’unico in grado di salvare il paese.
Sfortunatamente Goni non è Tony Blair né tantomeno Mandela, altro account nel portfolio della Greenberg, ma un blando tecnocrate cresciuto a Washington che biascica luoghi comuni di generico neoliberismo con uno spagnolo impastato di un improponibile accento «gringo» e quando si spengono i riflettori contiene a malapena il suo disprezzo per gli indigeni che nei comizi di paese gli versano coriandoli in testa e con cui è costretto, su ordini perentori dei consulenti, a farsi continuamente fotografare («indica compassione per i poveri»). Il «modernizzatore scoialdemocratico» prescelto dalla GCS cioé è l’ennesimo fantoccio della banca mondiale imposto dal Norte, mentre fra gli altri 10 avversari comincia ad emergere Evo Morales, i candidato indigeno che raccoglie entusiasmo genuino fra gli indios delle campagne.
La strategia dei mercanti di democrazia è semplice – ripetere il messaggio finché non diventa vero, produrre spot «on message» organizzare costanti focus group di elettori per monitorare gli effetti desiderati sull’opinione pubblica. È un format che ha dopotutto dato ottimi risultati in molti altri paesi, dall’Irlanda alla Germania ad Israele, Carville è stato uno dei pionieri della consulenza politica da export ed ha almeno ufficialmente abbandonato il mercato americano, del consenso, troppo saturo e competitivo, per concentrarsi sui mercati emergenti delle democrazie straniere.
Sull’altra sponda politica ci sono consulenti di area repubblicana come Dick Morris e Frank Luntz (quello del format ‘contratto con l’America’ famosamente rivenduto a Berlusconi dopo il successo avuto con Newt Gingrich e i repubblicani neo-reaganiani) specializzati in candidati conservatori su campo internazionale, formazioni che si incontrano e si scontrarono in paese dopo paese riproponendo gli stessi format in opposizione in elezioni in Kenya, Argentina, Austria e Honduras: multinazionali del «consenso» che ha preso il posto della politica (In Italia i clienti Greenberg furono l’Ulivo e Francesco Rutelli).
Nel film della Boynton mentre il voto si avvicina, i numeri di Goni stentano a decollare malgrado le scenografie, l’illuminazione favorevole e il martellamento degli slogan. I tecnici della GCS passano a rimedi più sbrigativi, circolano voci e illazioni sugli avversari e in extremis l’uomo di Washington passa con uno scarto del 2%. È l’ennesima vittoria della nuova democrazia. Ma c’è un epilogo: a meno di un anno dall’elezione le cineprese di Rachel Boynton sono di nuovo a La Paz e filmano la rabbia popolare che esplode nelle strade dopo 9 mesi di promesse non mantenute se non alle multinazionali del gas e del rame. È l’avvento di Evo Morales e della sua idea di democrazia «antiquata» basata su giustizia sociale.
La versione fiction trasforma il consulente elettorale originalmente filmato da Boynton in protagonista femminile e le cuce addosso una improbabile coscienza per imbastire l’happy ending che esige il format moralista. Nel finale del documentario invece un campesino davanti al palazzo presidenziale dice: «Mas vale que se vaya este gringo hijo de puta». E così sarà: l’ultima inquadratura è per lui, Goni, scappato a Washington che medita sul proprio destino. Rosner scuote la testa e riflette: «ci sono cose che anche la democrazia non può aggiustare».
A dieci anni di distanza è lecito domandarsi quante invece siano state «aggiustate» e quante, da Damasco a Kiev, siano in procinto di esserlo tuttora.