Uno dei più importanti libri delle scienze sociali di fine Novecento. È cosi che Mario Pianta definisce Il lungo XX secolo nella prefazione che accompagna la nuova edizione del libro di Giovanni Arrighi voluta da Saggiatore nel ventennale della prima pubblicazione italiana. Un giudizio condivisibile, non per motivi «disciplinari», bensì per la capacità del saggio di Arrighi di fornire una lettura «forte» del capitalismo storico, espressione mutuata dal compagno di strada Immanuel Wallerstein, che l’economista italiano conobbe in Africa e con il quale, dopo il suo trasferimento definitivo negli Stati Uniti, condivise le sorti del Fernand Braudel Center. Come ogni lettura «forte» che si rispetti, anche il Lungo XX secolo non è esente da limiti, ma ha comunque rappresentato una ventata di aria nuova, contribuendo a diradare la nebbia che avvolgeva, negli anni Novanta del Novecento, il pensiero critico statunitense.  Quello di Arrighi, assieme agli studi di Saskia Sassen sulla globalizzazione e per altri versi Impero di Michael Hardt e Toni Negri hanno infatti rappresentato i tentativi più impegnati, negli Stati Uniti, nella ripresa di una puntuale e adeguata critica marxiana del capitalismo contemporaneo.

Una tendenza di lunga durata

Il Lungo XX secolo arriva nelle librerie una manciata di anni dopo la pubblicazione delle Conseguenze della modernità di David Harvey e della Logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson, innovative ricognizioni del postmoderno, una prospettiva filosofica che, a differenza dell’Europa, costituiva negli Stati Uniti un’elaborazione che l’establishment culturale collocava alla sinistra del pantheon accademico. A differenza di Harvey e Jameson, Arrighi era però interessato a rintracciare le invarianti dello sviluppo capitalistico, alla luce del ruolo sempre più rilevante assunto dalla finanza nel ridisegnare le gerarchie sociali e politiche sia a livello «locale» che planetario. Da questo punto di vista, Il lungo XX secolo secolo è da considerare un punto di svolta nella produzione teorica di Arrighi.
I libri che seguiranno, a partire dal saggio scritto a quattro mani con Beverly Silver sul caos derivato dalla crisi irreversibile dell’egemonia statunitense nel capitalismo mondiale (Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori) e Adam Smith a Pechino (Feltrinelli) si concentrano infatti sul mondo emerso dal venir meno della forza propulsiva dell’egemonia statunitense. E se il caos rafforza il militarismo del capitale, la Cina è interpretata come un modello sociale che ha le carte in regola per aspirare a diventare il centro di un nuovo ciclo di espansione economica, in virtù del fatto che non è più una società socialista, ma non è però diventata un paese capitalista. Dunque, non un nuovo modello di capitalismo, bensì una società di mercato che mantiene alcune caratteristiche «socialiste» del recente passato, mentre ne ha adottate alcune «capitaliste». In chiusura del libro «cinese», l’autore annuncia una ulteriore tappa del suo nuovo percorso teorico, che non sarà però resa possibile a causa della sua morte nel 2009.
Quel che emerge dalla rilettura del Lungo XX secolo è la scelta di Arrighi di un’analisi sulla lunga durata dello sviluppo economico, caratterizzato da un andamento ciclico, dove alla fase aurorale, che pone le basi di un’egemonia economica e politica di una realtà locale, ne segue una espansiva, che stabilisce un rapporto di interdipendenza tra il centro dello sviluppo e le zone di influenza, che vengono plasmate in base ai vincoli posti dalla crescita economica. È all’azimut del ciclo, qualificato come sistemico, che si manifestano le contraddizioni, i limiti di quel modo di produzione egemonico. Ed è in questa contingenza che, marxianamente, la finanza diviene momento di stabilizzazione, di gestione della crisi, senza che però possa arrestare il declino del centro del sistema-mondo che quel ciclo ha prodotto.

Il nuovo baricentro atlantico

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La crisi non coincide mai, tuttavia, con la fine di un modo di produzione, bensì con una sua trasformazione coincidente con uno spostamento «geografico» del centro dello sviluppo economico. Sono tutt’ora pagine belle da leggere quelle dove Arrighi descrive l’ascesa, nel XIV secolo, di Genova come una potenza economica che arriva a condizionare il regno imperiale spagnolo, per poi passare lo scettro a Venezia. E quando la Serenissima arriva al massimo del suo splendore, assistiamo alla prima crisi sistemica. È in questa contingenza che emerge l’Olanda come paese egemone del capitalismo storico, prima di conoscere l’inevitabile declino a favore dell’Inghilterra. Con il Regno Unito, inizia il terzo ciclo sistemico del regime di accumulazione capitalistico, che si concluderà solo negli ultimi anni del Novecento, con la crisi del 1973, anno totemico per indicare l’inizio del declino statunitense. Ogni ciclo sistemico vede un’innovazione tecnica: nella tecniche di costruzione delle navi per Genova e Venezia, che consentono alle due città italiane di conseguire un vantaggio competitivo rispetto alle possibili concorrenti, ma anche nello sfruttare e stabilire rapporti privilegiati con realtà economiche emergenti nella lavorazione del cotone (Lione), nello sfruttare tecniche «finanziarie» innovative (le lettere di cambio e la contabilità sviluppate a Firenze); nell’accedere alle riserve di argento e oro del Nuovo mondo. L’Olanda invece riesce, al tramonto della Repubblica di Venezia, a sfruttare il dinamismo dell’industria tessile inglese e nelle nuove tecniche di lavorazione dei metalli messe in campo nell’attuale Germania. L’Inghilterra si farà forte invece della sua rivoluzione industriale.
Come testimoniano le appassionate e appassionanti ricostruzioni storiche di Arrighi, nel ciclo sistemico dell’accumulazione capitalistica convergono elementi esterni (l’oro e l’argento proveniente dalle Americhe, ad esempio) che interne all’attività economica, dove l’innovazione del processo lavorativo e organizzativa hanno sempre una funzione propulsiva e dinamica. Fedele però alla griglia analitica di Fernand Braudel, Arrighi introduce un altro fattore, il «territorialismo», cioè la posizione occupata da una città o da una nazione nei flussi di merci e materie prime. Così, Genova e Venezia sono collocate in posizione strategica rispetto ai commerci che mettono in relazione l’«oriente» con l’Europa, mentre l’Olanda è uno snodo nel trasporto dei metalli lavorati nel centro Europa verso l’Inghilterra e il «Nuovo mondo». Lo stesso si può dire dell’Inghilterra nel periodo che vede una centralità «atlantica» nello sviluppo capitalistico.
Non è certo una novità l’interesse di Arrighi verso la geografia, intesa però come angolo di osservazione dell’evoluzione del sistema-mondo. Lo testimonia il libro, da tempo introvabile, sulla Geometria dell’imperialismo (Feltrinelli), dove la geografia è appunto introdotta come una variabile fondamentale per spiegare le linee di tendenza dello sviluppo capitalistico e gli assetti politici che regolano il «sistema-mondo», espressione quest’ultima «presa in prestito» da Immanuel Wallerstein.

La cattiva transizione

Il ciclo sistemico dell’accumulazione è così contraddistinto dalla trasformazione di una innovazione in un fattore produttivo che consente un vantaggio competitivo rispetto ai potenziali concorrenti; dalla posizione occupate nel flusso delle merci e delle materie prime. Il terzo fattore è dovuto alla finanza. Quanto viene esaminato il suo ruolo nello sviluppo economico, Arrighi fa leva sulle tesi marxiane che vedono nella finanza una funzione rilevante nella riproduzione allargata del capitale. Diviene, e qui il Marx evocato è quello del terzo libro del Capitale, funzione parassitaria quando la capacità innovativa viene meno e c’è contrazione nella capacità di garantire investimenti produttivi. È qui che comincia la fase discendente del ciclo sistemico. Questo non significa che si manifesti la crisi, ma che la finanza la dilaziona nel tempo: ha cioè una funzione stabilizzatrice del ciclo economico, diventando però un ostacolo nel produrre nuove innovazioni. È questa una fase di transizione tra un ciclo sistemico di accumulazione e un altro, che vedrà il suo centro collocato altrove da quello in fase declinante.
La descrizione che Arrighi fornisce del passaggio che c’è tra un ciclo e l’altro ha le sue fonte in un paziente lavoro storiografico che annulla le barriere disciplinari. Il Lungo XX secolo non è infatti solo un libro di teoria economica, ma anche e soprattutto un condensato di storia sociale, di antropologia. Per gli appassionati di una storia delle idee, le radici teoretiche di Arrighi stanno certo in Marx, ma anche nelle teorie del ciclo economico di Kondratieff, negli «Annales» francesi, nell’antropologia strutturalista di Levi-Strauss, nella sociologia economica di Joseph Shumpeter, di Karl Polany e di Max Weber. Assenti sono però alcune variabili indipendenti, come ad esempio la lotta di classe.

Il trittico del capitale

Giovanni Arrighi è stata una figura importante nel Sessantotto milanese. Formatosi alla Università Bocconi, già allora cuore delle teorie economiche liberali, si trasferì giovanissimo in Africa dove insegnò all’università dell’allora Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. È durante il periodo africano che incontra Immanuel Wallerstein, con il quale avvia un forte e duraturo sodalizio intellettuale. Tornato in Italia partecipa al Sessantotto e fonda, assieme a molti altri militanti del movimento studentesco, il gruppo Gramsci, gruppo che si caratterizza per la sua attività politica nelle fabbriche dell’hinterland milanese. E tuttavia negli scritti di Arrighi, la lotta di classe svolge un ruolo sempre secondario rispetto l’analisi delle tendenze in atto nel capitalismo. Alle critiche che sottolineavano questa assenza, Arrighi ha sempre risposto che il ruolo del conflitto di classe e dell’azione politica del movimento operaio nella possibilità di condizionare le dinamiche immanenti al ciclo economico era dato per scontato. Lo ricorda anche nella postfazione presente nel volume, scritta nel 2009 pochi mesi prima della sua morte. Ma la lotta di classe è un «imprevisto» che non mette in discussione il ciclo economico, che ha quasi una sua «naturale oggettività».
Nel tempo, poi, nell’analisi proposta da Arrighi il capitalismo storico è sovrapposto all’economia di mercato, facendo così venire meno quella peculiarità messa in evidenza da Marx, che è la comparsa del lavoro salariato e il trittico di plusvalore relativo, assoluto e pluslavoro che spiega lo sfruttamento del regime di accumulazione capitalistico. Per Arrighi, invece, il capitalismo è un regime sociale e economico che si base su una distribuzione ineguale della ricchezza, spiegata però come l’esito di una appropriazione privata attraverso l’uso della forza. Per questo, ad esempio, Adam Smith a Pechino si chiude con la denuncia del militarismo e delle pratiche di espropriazione delle materie prime che ha caratterizzato il «lungo novecento», nonché questo primo decennio del nuovo millennio. Non è quindi un caso che Arrighi si sia dimostrato sempre restio a definire la Cina contemporanea come una società capitalistica governa da un partito comunista, preferendo qualificarla come una società di mercato.
Il valore della riflessione di Arrighi non sta però nelle fedeltà o meno ai testi marxiani, bensì sulla capacità di offrire uno sguardo d’insieme e una contesto storico allo sviluppo capitalistica. Un ordine sociale, politico e economico, cioè, che non ha nulla di naturale e che è destinato a lasciare il posto ad altre formazioni sociali e politiche. Sta dunque alle azioni degli uomini e delle donne la possibilità di trasformare la miseria del presente attraverso quella ricchezza del possibile che la cooperazione produttiva e sociale riesce ad esprimere.