Veemente contro i critici, specie gli editorialisti del Corriere ai quali non piace molto l’Italicum, polemico anche con i deputati della minoranza Pd ai quali rimprovera l’incoerenza. In commissione affari costituzionali alla camera, ieri, è stato il politologo Roberto D’Alimonte il protagonista del primo giorno dedicato alle audizioni di «esperti» (ma si è visto anche Francesco Storace) sulla legge elettorale. Del resto è stato lui a consigliare Renzi, quando si trattò di tradurre in formula il «patto del Nazareno». Poi, nel corso dell’anno trascorso dalla prima approvazione della legge alla camera, il professore della Luiss ha trovato qualche difetto alla proposta: non gli è piaciuto che sia stata ridimensionata a legge elettorale della sola camera e non gli piace il mix di pluricandidature bloccate e preferenze, lo considera un «brutto pasticcio». Ma ieri, con verve renziana, il professore ha difeso la sua creatura dalle critiche della politica e dell’accademia. E ha rivendicato il colpo grosso: «Sì, avremo l’elezione diretta del presidente del Consiglio».

La vera riforma delle istituzioni, ecco l’ammissione, sta cioè nella legge elettorale e non nella revisione costituzionale parcheggiata al senato. E ci sta neanche troppo nascosta, visto che il ballottaggio tra le prime due liste è «il cuore della proposta», come certifica il professore. Peccato però che l’Italicum proponga un ballottaggio tra liste e che la stessa legge ipocritamente preveda (articolo 2 comma 8) che «restano ferme le prerogative del presidente della Repubblica», al quale spetta di nominare il capo del governo. E così, dopo la porta aperta dall’indicazione del nome del capo partito sulla scheda, la modifica «implicita» della forma di governo può dirsi compiuta. E rivendicata, proprio quando l’ultrarenziano capogruppo Pd in commissione Emanuele Fiano tenta di spiegare che «non c’è modifica della forma di governo perché sul punto la Costituzione non è stata toccata».

D’Alimonte ha il pregio di non nascondere le reali intenzioni della riforma. E dice che la soglia bassa per i piccoli partiti (al 3%) non è un problema perché il sistema, grazie al riparto nazionale dei seggi e al ballottaggio, arriverà molto presto al bipartitismo (almeno così promette la regola di Cox). Proprio sul ballottaggio, e sulla possibilità che alla fine conquisti il premio di maggioranza un partito che ha raccolto una esigua minoranza dei voti nel primo turno, si sono concentrate le critiche di quasi tutti gli altri esperti ascoltati ieri. Dalla professoressa Lara Trucco, secondo la risposta che è stata data alla Corte costituzionale (dopo la bocciatura del Porcellum) è ingannevole perché viene prevista una soglia per l’assegnazione del premio di maggioranza (il 40% al primo turno) ma si prevede anche che quella soglia non serve nel secondo turno, al professor Massimo Villone i cui argomenti i lettori del manifesto ben conoscono. Al professor Roberto Zaccaria e al collega Vincenzo Tondi della Mura, secondo il quale è un paradosso che nel referendum abrogativo sia richiesto un quorum per abrogare una disposizione di legge e nel ballottaggio invece non si preveda una soglia minima di partecipazione per formare l’organo legislativo. Mentre il costituzionalista Massimo Luciani ha di nuovo segnalato il rischio che la Consulta possa giudicare irragionevole la distorsione del proporzionale in favore della governabilità, se nel frattempo la riforma costituzionale non sarà approvata e dunque si dovrà votare con un altro sistema (il «Consultellum») per il senato. E anche un sostenitore dell’Italicum come il costituzionalista Augusto Barbera non ha nascosto più di un punto debole della legge. Ma ha sostenuto che la riforma è troppo importante per bloccarla adesso. Un po’ la tesi di Giorgio Napolitano. Assai poco «tecnica», molto in sintonia con la politica.