Interpretare un’immagine, oggi, è sempre meno spiegare a parole che non produrre un’altra immagine, con un interpretante o una traduzione performativi. È propriamente metterla in scena. Dell’«opera» si sfrutta la flessione verbale (goodmaniana) più che nominale: l’operazione, l’iniziazione all’operare. Chiaramente questo fare scatena ancora discorsi sull’opera, guai se non ci fossero. Ma ad attivarla è soprattutto un’artificazione rizomatica: un’arte «relazionale» non nel senso di artisti che si relazionano con spettatori, lasciando inalterati i ruoli, ma di spettatori a loro volta artefici.

Nuovi media e codici dell’arte potenziano il modo diverso, spesso e concreto, dei linguaggi della visione di esprimere il pensiero. Una «teoria», un’«idea» sono visive. Lo sanno gli scrittori che si cimentano nell’ekfrasis: la descrizione di un quadro è tanto più riuscita quanto meglio attinge alla figuratività del linguaggio naturale per restituire la figuratività dell’immagine.

Informatizzazione e Internet hanno accelerato questi processi. Nanni Balestrini, però, veste i panni dello spettatore artefice da sempre. Con la tecnica del cut-up ha riletto visivamente, spazialmente, forme e sintassi della comunicazione e della letteratura. Le ha fatte a pezzi per assemblare il brusio che le accomuna: voci andate perse o confuse dietro l’apparenza di racconti semplici. Il cosiddetto «messaggio immediato» è un’illusione: dopo il primo impatto va scandagliato, scomposto, sovvertito, anche per spiegarlo quando emoziona. Tentare di comprendere, attraverso l’analisi, è tutt’altro che disumanizzare lo sguardo. È essere passionalmente consapevoli dell’efficacia dei linguaggi.

Ora, per la prima volta, Balestrini si misura con un’unica immagine complessa: La tempesta (1502-03) di Giorgione. Fino al termine di novembre, la galleria Michela Rizzo, a Venezia, ospita il suo progetto espositivo La Tempesta perfetta, realizzato in collaborazione con la Fondazione Bonotto e un videointervento di Achille Bonito Oliva. Il neoavanguardista sceglie l’opera forse più controversa (e sovvertita) della storia dell’arte, intrisa delle sue varie esegesi, e ne dà una personale interpretazione, cromatica e testurale. La tempesta che il fulmine, in Giorgione, annunciava soltanto, si è adesso realizzata, in una pioggia di dettagli. Si è compiuta, è appunto «perfetta». Ma una «tempesta perfetta» è anche un uragano di enorme portata e una metafora, come nel romanzo di Sebastian Junger, The Perfect Storm (1997), da cui è tratto il film di Wolfgang Petersen (2000).

Nella prima sala Balestrini espone le Scomposizioni: sei pannelli di particolari del quadro veneziano, ciascuno dei quali riprende da vicino il fogliame degli alberi mosso dal vento, il fulmine e le nuvole in cielo, il ponte e gli edifici, il corpo del giovane uomo, le due mezze colonne, il bambino e la donna che lo allatta. Commentano, a mo’ di legenda, passi della Tempesta di Shakespeare: «Qui fiorisce tutto ciò che è propizio alla vita»; «Come schiantati dal fulmine abbiamo sentito echeggiare un boato»; «Un racconto di prodigi oh splendido nuovo mondo»; «Siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni». Di fronte ai pannelli campeggia uno studio cromatico del dipinto: i particolari sono montati insieme in riquadri rosa, beige, arancioni, blu, verdi, rossi, viola, marron, celesti, combinati con tessere di tessuti Bonotto dagli stessi toni, ma più accesi.

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Il patchwork include altri estratti della commedia shakespeariana che una finta scheda tecnica, appesa in sala, offre in forma poetica: «In queste cose c’è / più di quanto / la natura abbia / mai ordinato»; «Questo è un vero / labirinto per / inscenare le / mie fantasie»; «Qualche oracolo / deve rimettere / in sesto la nostra / conoscenza o fallisce / il mio progetto che / è di dar piacere»… Attraverso questa ventriloquia di Shakespeare, Giorgione prende la parola nel qui e ora della mostra. Si scommette su una valenza simbolica, allegorica del quadro, indifferente ad ancoraggi cronologici, biografici o filosofici in chiave neoplatonica.

La seconda sala (Genesi) presenta lunghi arazzi Bonotto che riproducono in serie, ingrandite e in un pattern che ricorda l’effetto farfalla, sfumature ispirate al dipinto. Citazioni dal Peccato originale indicano la pista seguita, non senza una domanda «impertinente» sulla contraddizione di un albero della conoscenza nell’Eden: «Disse la donna il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato»; «Il serpente disse se ne mangerete si apriranno i vostri occhi e conoscerete il bene e il male»…
La lettura del Giorgione come Paradiso perduto (Settis), allegoria della difficile fase che Venezia conobbe a inizio Cinquecento, in conflitto con la Chiesa, serve a Balestrini per ripensare La Tempesta con le connotazioni attuali del concetto di «perdita». Non è lo smarrimento di un senso compiuto o di un’univoca interpretazione, anzi. Tutta l’«analisi» visiva di Balestrini è il preliminare necessario di un’interpretazione precisissima, altrettanto visiva, che permette ai particolari di diventare dettagli. Dell’opera, per quanto aperta, non si può fare tutto (come non si può dire tutto).
La terza sala svela il tipo di «tempesta» che l’artista legge in Giorgione. Implosioni, al piano superiore, è il momento riflessivo del percorso della mostra. A sinistra pannelli con cornici nere inquadrano ancora parti dell’opera cinquecentesca e, sovrapposte, stringhe di titoli giornalistici. È il medium con cui Balestrini prende la parola: «La storia non è istantanea», «Sui bordi dell’immagine», «Nell’inferno della conoscenza».

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A destra lacerti di dollari scorrono in orizzontale su ingrandimenti di figure del quadro, lessicalizzate da caratteri tipografici. Infine, sui lati corti della sala, quattro tele della stessa dimensione del dipinto lo riproducono in bianco e nero e a monocromi seppia, blu e beige, sottraendo la policromia. Rendono visibile la griglia numerata servita all’artista per le sue combinatorie. E contengono, oltre a frammenti della banconota americana, versi dal Canto XLV Con usura di Ezra Pound: «Usura arrugginisce il cesello / Arrugginisce arte ed artigiano / Tarla la tela nel telaio, nessuno / Apprende l’arte d’intessere oro nell’ordito». Durante il giorno dell’inaugurazione, Nanni Balestrini ha marcato disforicamente queste tele con chiazze e concrezioni di pittura nera.

È il denaro – o il sistema di valori fondato sul denaro – ad aver provocato una «tempesta perfetta»: la tempesta finanziaria del subprime, speculazione sui prestiti negli Stati Uniti (2006), che ha colpito, con effetti a farfalla tuttora in corso, la fetta più vulnerabile e cospicua della popolazione mondiale: i piccoli risparmiatori. L’avidità di pochi toglie colore alla vita di tutti.

L’arte stessa è presa in queste maglie: la fortuna di un’opera dipende essenzialmente dal suo successo di mercato, dalla capacità di generare profitto. Nel silenzio generale. Perciò il giudizio critico, nero, arriva da altre pratiche artistiche. La reticenza non è dell’arte, è degli intellettuali. L’intervento di Balestrini, più che una variazione, come lo erano le Meninas (1957) di Picasso da Velázquez, è un’appassionata analisi che interpreta La tempesta per la particolare memoria, al futuro, da preservarne.