Nei primi otto anni anni di crisi la povertà assoluta in Italia è aumentata del 130%. Nel 2007 823 mila famiglie erano in questa condizione, nel 2014 erano arrivate a 1 milione 470 mila. Gli individui incapaci di garantirsi una vita minimamente accettabile con un reddito degno di questo nome erano, rispettivamente, 1 milione 789 mila e 4 milioni 102 mila. Per essere ancora più chiari: negli anni dei tagli al welfare, delle manovre economiche recessive, dell’ostinato diniego da parte di tutti i governi di politiche universali di contrasto come il reddito minimo di base, la povertà assoluta si è radicata e ha colpito 2 milioni 313 mila persone. In questa cornice bisogna considerare i dati sulla «povertà relativa», calcolata sulla base della spesa di una famiglia di due membri pari a 1,041 euro mensili composta da due componenti. Nel 2014 erano 2 milioni 654 famiglie, cioè 7 milioni 815 mila individui, a trovarsi in questa condizione.

Questo è l’ampio bacino del disagio economico fotografato nel report sulla povertà in Italia diffuso ieri dall’Istat. La povertà assoluta colpisce più al Sud, la percentuale dell’8,6% è più che doppia che al Nord. Nei territori registra un’incidenza più elevata nelle zone rurali al sud e in quelle metropolitane al Nord. Le più colpite sono le famiglie con stranieri (23,4%), le donne (2 milioni 44 mila) e si conferma il dato inquietante del boom della povertà alimentare ed educativa tra i minori che sono 1 milione 45 mila. I giovani tra i 18 e i 34 anni sono 857 mila, gli anziani 590 mila. Quasi la metà (il 46,5%) di chi è in questa condizione è italiano e si rivolge alla Caritas. Gli altri sono stranieri. Il 62,7% persone è senza occupazione. Nel primo semestre 2014, 46 mila persone si sono rivolte alle mense e ai centri d’ascolto di questa organizzazione. Quanto alla povertà relativa, diffusa soprattuto a Sud, dove una famiglia su quattro è povera, colpisce le famiglie con a capo un operaio ed è decisamente superiore (15,5%) a quella tra gli autonomi (8,1%), in particolare agli imprenditori e ai liberi professionisti (3,7%), si presume non ai freelance o a coloro che vivono nella zona grigia tra parasubordinazione e precariato, dove crescono le nuove povertà al lavoro.
L’Istat attesta una stabilizzazione del dato sulla povertà assoluta dopo due anni consecutivi di crescita. Per la precisione, parla di «dato non negativo per un fenomeno così pesante. La quota delle famiglie in povertà assoluta è stabile, ma elevata» ha commentato il suo presidente Giorgio Alleva. Si tratta pur sempre di un aumento del 130% in sette anni.

Pensate che davanti a questi numeri Renzi si sia fermato a riflettere, abbia avuto un tentennamento? Per nulla: «L’Italia ha oggettivamente svoltato – ha detto il presidente del Consiglio – ma c’è ancora molto da fare». Questo è sicuro. E poi: «Se manteniamo questo ritmo sulle riforme avremo dati di crescita significativi». Non è Lercio, il sito di umorismo che spopola in rete. Se il dato è «non negativo» significa semplicemente che non c’è crescita, mentre la povertà assoluta si è radicata e difficilmente sarà reversibile senza interventi oculati. Proprio quelli che Renzi ha evitato, fino ad oggi, di fare in ogni modo, preoccupato di stanziare quasi 10 miliardi all’anno per gli 80 euro in busta paga per i consumi stagnanti del ceto medio impoverito. Renzi critica «chi stappava lo champagne per un più zero virgola sulla crescita» ma confonde gli indicatori. Qui non si parla di crescita del Pil, ma di un «dato non negativo» della crescita dell’esclusione sociale totale. Va troppo di fretta, prende fischi per fiaschi: «Non sarò mai soddisfatto dei dati economici finché non vedremo grandi dati di crescita». Può allora aspettare a lungo, perché la crescita di questo tipo non la rivedrà mai e quella che ci sarà non produrrà un’occupazione fissa ma precaria \[jobless recovery\] come dimostrano quotidianamente i primi dati sul Jobs Act.

Resta fuori da questo orizzonte mentale qualsiasi forma di tutela universale contro la povertà, definito da Renzi «incostituzionale» nella sua formulazione (errata) di «reddito di cittadinanza». In realtà si tratta di un reddito minimo universale ed è un provvedimento legittimo. Una legge sarà presentata in Senato dal Movimento Cinque Stelle e da Sel (e forse da una parte del Pd) a settembre, dopo la fruttuosa mediazione della campagna «reddito di dignità» di Libera di Don Ciotti e del Bin-Italia. «Il governo è inerte – ha sottolineato Nunzia Catalfo (M5S) – non si è ancora adoperato per introdurre alcun tipo di misura per il contrasto alla povertà». Il costo oscilla tra i 14 e i 23 miliardi di euro annui finanziabili con la fiscalità generale e attraverso una rimodulazione degli ammortizzatori sociali. Riguarda gli individui e consiste in un’erogazione tra i 650 e i 780 euro mensili in cambio del consenso di un’offerta di lavoro congrua e dignitosa. Se approvato, il reddito minimo potrebbe essere la prima iniziativa per invertire la tendenza del radicamento della povertà e dell’unica crescita visibile in Italia, al di là della spettacolare produzione di balle mediatiche: quella dei «lavoratori poveri» tra i dipendenti come tra gli autonomi.

Oltre al reddito minimo universale, una misura assente solo in Italia e in Grecia che mira alla riunificazione dei sussidi esistenti sulla disoccupazione, la precarietà e la povertà, esiste un altro progetto. Si tratta del «reddito di inclusione sociale» proposto dall’«Alleanza contro la povertà», un cartello formato, tra gli altri, dalle Acli e dai sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil. Ieri questa misura riservata al contrasto della sola povertà assoluta è stata riproposta dai suoi ideatori con una certa urgenza. «Deve essere basato non solo su sufficienti risorse finanziarie – sostiene Gianni Bottalico, presidente delle Acli – ma anche sull’attivazione di una rete di solidarietà che coinvolga gli enti locali, le comunità, il servizio civile. Chiediamo al governo che si preveda un intervento strutturale nella prossima legge di stabilità». Le sperimentazioni in atto del Sia o della social card «sono inefficaci – ha detto Vera Lamonica, segretaria confederale Cgil – c’è bisogno di un piano nazionale di contrasto alla povertà».

Welfare. Costi e prospettive del reddito minimo
Il presidente dell’Istat Giorgio alleva ha presentato l’11 giugno scorso in un’audizione al Senato una valutazione dell’impatto economico delle proposte di legge sul reddito minimo presentate dal Movimento Cinque Stelle e da Sinistra Ecologia e Libertà. Le stime delle microsimulazioni effettuate dall’Istituto Nazionale di Statistica hanno fissato il costo del provvedimento dei Cinque Stelle in 14,9 miliardi di euro annui, quello di Sel in 23,5 miliardi. La prima proposta garantisce un livello minimo di risorse a 2 milioni 640 mila persone con reddito inferiore all’80% della linea di povertà relativa. La seconda è un’erogazione universale a tutti coloro che sono in povertà, sono alla ricerca di un lavoro, o lavorano precariamente e aumenta con famiglie con più componenti ed è rivolta a «monogenitori» con figli minori, giovani e single, coppie con figli minori. Dopo la campagna «reddito di dignità», promossa tra gli altri da Libera di Don Ciotti e dal Basic-Income- Network Italia, i due partiti si sono impegnati a presentare un disegno di legge unificato, probabilmente con la partecipazione di una delle minoranze del Pd. Lo faranno a settembre, poi chiederanno la presidente del Senato Grasso di calendarizzare la proposta e discuterla in aula.