I banchieri – e gli azionisti – si aspettavano ben altro. Invece le “bad bank” all’italiana per piazzare sul mercato i crediti deteriorati si annunciano come un provvedimento tampone, che potrà aiutare a smaltire una parte delle sofferenze ma non scioglie certo il nodo gordiano dei tanti incagli. Provocati per lo più da quei clienti “eccellenti” a cui le banche italiane hanno fatto ponti d’oro, visto che 25,5 miliardi di sofferenze sono a carico di soli 579 soggetti, ai quali sarebbe molto interessante dare nome e cognome. Mentre, nel complesso, 141,4 miliardi sui circa 200 totali di sofferenze sono relativi a prestiti erogati a poco più di 30mila clienti. Meno del 3% di quelli considerati problematici.
Gli unici a tirare un sospiro di sollievo sono i contribuenti, che non si vedranno piovere addosso, come pietre, i costi delle pulizie bancarie, così come avrebbe voluto il governo Renzi con la prima versione della “bad bank” totalmente coperta da garanzie statali. L’accordo raggiunto la notte scorsa fra il ministro Padoan e la commissaria europea alla concorrenza Vestager sembra invece profilare un intervento “di mercato”. Sia per il costo della garanzia statale, che nei meccanismi di cartolarizzazione delle sofferenze. Meccanismi “limati” dai tecnici anche dopo l’annuncio dell’accordo.
“C’era bisogno di un annuncio che placasse i mercati”. Il commento del prof bocconiano Andrea Resti fotografa bene una situazione in cui, a distanza di ore, ancora si divaga sul prezzo della garanzia statale. Che è stata comunque studiata a costi crescenti, per incentivare gli operatori del settore a recuperare i crediti nel più breve tempo possibile, nelle ipotesi più rosee entro tre-cinque anni dall’emissione dei titoli dentro i quali saranno “impacchettati” i crediti deteriorati.
Già a occhio la garanzia statale non appare particolarmente attraente per chi ne avrà bisogno, almeno a giudicare dalla reazione della borsa. A Piazza Affari la giornata è stata infatti contraddistinta dalle vendite, anche massicce, nel settore bancario. I numeri dicono che il Banco popolare ha perso il 7,8%, Bper il 4%, Carige il 3,67%, Ubi e Unicredit oltre il 3%, Bpm e Mediobanca l’1,5%.
Soltanto il Monte Paschi è andato lievemente in positivo, recuperando l’1,13%. A conferma che sul terzo gruppo bancario italiano c’è stata una speculazione al ribasso, tesa a farlo diventare preda di qualcuno che sperava in una “bad bank” ben più incisiva. In grado di far smaltire a Mps i 9,4 miliardi di crediti deteriorati (e i 24 miliardi di crediti dubbi) in pancia a Rocca Salimbeni.
Intanto il ministro Padoan fa buon viso a cattivo gioco. In una nota con i dettagli sull’operazione, il Tesoro spiega che il meccanismo approvato dalla Ue “non genererà oneri per il bilancio dello Stato”. Addirittura, girando la frittata come da inveterato costume renziano, “si prevede che le commissioni incassate siano superiori ai costi, e che vi sia pertanto un’entrata netta positiva”.
Quello che a via XX Settembre si guardano bene di dire, ma che è stato subito evidenziato dagli addetti ai lavori, è il fatto che con le “bad bank light” diversi istituti di credito potrebbero essere costretti entro qualche mese a nuovi, ulteriori, aumenti di capitale. Magari non le banche più grosse come ad esempio Unicredit, che secondo alcuni analisti (non tutti) potrebbe far fronte anche al nuovo scenario. Piuttosto quelle intermedie, che non per caso nei giorni scorsi erano al centro di una sorta di risiko, assecondando le volontà di palazzo Chigi. Ma che ora, più che a fusioni e acquisizioni, dovranno pensare a come, prima o poi, saranno corretti i loro bilanci. All’interno dei quali le sofferenze sono valutate il 43% del valore nominale dei crediti. Una percentuale fuori mercato, non solo a detta di Bruxelles.