Nella serie televisiva The Young Pope diretta da Paolo Sorrentino per Sky, uno degli episodi più sorprendenti è l’arrivo di un canguro in dono dall’Australia, che sembra instaurare un dialogo muto ma eloquente col giovane papa Jude Law, e solo con lui. Come accade altre volte nel cinema di Sorrentino (ad esempio coi fenicotteri che rispondono al soffio della «santa» ne La grande bellezza), l’apparizione di animali riporta a una dimensione della realtà che solo una spiritualità profonda riesce a intercettare: epifanie di un sistema di vita che si contrappone visivamente allo sfondo sordido e patetico delle infelicità individuali e delle ambizioni di potere.
Un ponte fra l’immaginario zoologico e la storia del più longevo dei poteri terreni, quello papale, emerge ora in Il bestiario del papa (Einaudi «Saggi», pp. 378, € 32,00), studio esemplare sul significato simbolico degli animali nella rappresentazione pontificia, pubblicato dal medievista Agostino Paravicini Bagliani. Un viaggio illustrato nei meandri della semiotica zoomorfa che emerge da fonti variegate e spesso poco accessibili: araldica e sfragistica, figurazioni pittoriche e scultoree, bolle papali e cronache, descrizioni satiriche e letteratura teologica o ereticale, siti web, perfino manoscritti e documenti originali. Uno spoglio che parte dal primo cristianesimo per finire ai giorni nostri, secondo il concetto di «lunga durata» santificato dalla storiografia francese ed esplicitamente richiamato dall’autore nell’introduzione. Esempio di questa durata è il ritorno della colomba, simbolo della pace e dello Spirito Santo, che compare già in occasione dell’elezione di papa Fabiano nel 236 per giustificare la scelta di un outsider, e continuamente riemerge nell’iconografia di personaggi «ispirati» dal volatile raffigurato sulle loro spalle o dietro un orecchio, come Gregorio Magno nella celebre miniatura del codice di Eginone, fino alle colombe liberate nell’Angelus dell’ultima domenica di gennaio da Paolo VI in poi (e che nel 2013, lanciate da papa Ratzinger, furono assalite da un corvo e da un gabbiano, presagi dello scandalo Vatileaks).
Medioevo platonizzante
Naturalmente la premessa comune a questa enciclopedia di segni è l’idea medievale di semiosi del creato che prende avvio dal Physiologus greco (il «Naturalista») e culmina nei bestiari, i repertori di interpretazioni allegoriche di piante e animali sui quali tre anni fa è uscita, nella stessa collana Einaudi, la sgargiante carrellata di Michel Pastoureau. La Chiesa cioè eredita e tramanda una mentalità semiotica che trova soprattutto nel Medioevo platonizzante la sua più intensa teorizzazione: la natura è un testo nel quale ogni parola, secondo il contesto, è passibile di più interpretazioni, sempre rinnovabili. Questa pansemiosi del creato, come l’ha definita Eco adattando Peirce a Giovanni Scoto, è il meccanismo generativo di una forma di democrazia semiotica, una permanente polisemia dell’essere e delle sue rappresentazioni, che comprende e valorizza appunto anche le forme animali. Di questo atteggiamento ermeneutico il «bestiario del papa» rappresenta un punto di osservazione importante e finora trascurato, che riserva continue sorprese: trattando dell’intreccio emblematico intorno al cavallo, ad esempio, Paravicini si sofferma a ricostruire le motivazioni del divieto di mangiare carne equina, che risale all’alto medioevo e all’area germanica ma non viene mai veramente chiarito sul piano teologico (Gregorio III si limita a dichiararla impura), nemmeno ricorrendo al passo del Levitico che proibisce di usare carni di quadrupedi non ruminanti e senza zoccolo bipartito.
Qualità dell’elefante
Diversamente interculturale la panoramica sull’elefante, nel quale i bestiari individuano qualità molteplici (fedeltà e grandezza sovrana, forza in combattimento e memoria, operosità e antagonismo coi «draghi»), perfettamente adatte a farne un simbolo del papa all’epoca del terribile Bonifacio VIII. Quando alla corte di Giovanni de’ Medici, Leone X, arriva nel 1514 il primo elefante in carne e ossa, dono dall’India del re Manuele di Portogallo, anche Raffaello lo ritrae sulla torre della porta del palazzo vaticano, oggi scomparsa. Il prestigio fiabesco cui era assurto l’animale nella città di Roma fu tale che Pietro Aretino ne compose un testamento grazie al quale il buon Annone – come era stato «battezzato» il pachiderma – metteva in ridicolo i vari prelati di curia attraverso il lascito di singole parti del suo corpo, compresi i testicoli lasciati al vescovo di Senigallia che pare fosse particolarmente «gaiardo» (così Pietro).
Una vera e propria scoperta per il lettore non specialista è anche il capitolo sulle Laudes cornomanniae, una sorta di festa carnevalesca celebrata il sabato in albis, con il papa che riceve ghirlande di fiori e tre animali (una volpe, un gallo e un daino) dagli arcipreti delle diciotto diaconie romane, incoronati da copricapo cornuto e armati di un sistro da baccanti, seduti alla rovescia su un asino, mentre i sacrestani recitano scenette comiche e versi «barbarici».
L’anello del pescatore
Oltre l’aneddoto, la decrittazione delle simbologie zoologiche consente di introdurre questioni socio-culturali di maggiore complessità, come l’atteggiamento del cristianesimo verso la caccia, sconsigliata a tutti e vietata ai chierici, e la pesca, tollerata invece e anzi illuminata dall’esempio degli apostoli, come dimostra l’anello del pescatore, cesellato con scene di pesca o navigazione, che almeno dai tempi di Clemente IV serve a sigillare le lettere segrete del papa e che alla sua morte viene ritualmente spezzato. Ma il capitolo forse più gustoso è quello che spiega come mai esistevano in Vaticano una Camera e un Cortile del Pappagallo. Paravicini inaugura la lunga storia di questi spazi collegando il regalo di un uccello capace di pronunciare il nome del Papa Leo, nell’undicesimo secolo, con la notizia, cantata da Marziale, di un pappagallo che salutava l’imperatore. La sala ospitava i cardinali in attesa del pontefice e fu usata per investiture, benedizioni e udienze, ma soprattutto per la vestizione del papa, tanto da richiedere un collegio di cubicularii e camerarii papagalli. E Raffaello coi suoi allievi dipinse sulla porta della camera il Battista che guarda proprio un pappagallino sudamericano biancoverde: recuperando così la funzione di annuncio della sovranità (cristica e, per inferenza, papale) dei pennuti imperiali di Marziale.
Naturalmente questo serraglio di simbologie decorative viene rovesciato da chi, come i protestanti o i poeti di corti rivali, le usava per mettere in ridicolo i pontefici, dall’Ariosto a Rabelais, che gioca facile sull’assonanza ritraendo l’unico Papa-gallo con la sua corte di Cardin-galli, fino al Belli, che all’uccellino profetico fa annunciare, invece che il Papa, la Repubblica romana. Ancora nel 2003 Eric Till nel film Lutero fa del pappagallo in gabbia d’oro un’evocazione del papa senza più maestà. Gli sviluppi satirici costituiscono in effetti una delle novità più interessanti di questa storiografia a tutto campo e arrivano fino al ventesimo secolo, quando due giovani socialisti, fondando la rivisa «L’Asino» (sconfessata dal partito), riprendono nelle loro vignette l’antica tradizione luterana del Papstesel (asino-papa), che istituzionalizzava il reimpiego polemico del «mostro con la testa d’asino» emerso dal Tevere nel 1496. Oggi papa Francesco fa proiettare le immagini elettroniche di animali sulla facciata di San Pietro per creare un corrispettivo visuale dell’enciclica Laudato si’, spesso riduttivamente definita ecologista, in realtà politicamente critica contro gli assetti economico-finanziari che impongono a uomini e animali lo stesso destino di mercificazione. Ma forse anche di questa comunicazione profetica, come di quasi tutti i pappagalli dipinti in Vaticano, non resterà in futuro che un ricordo nelle nostre cronache.