Nel secondo dopoguerra lo studio della mente era ancora dominato, almeno negli Stati Uniti, da un paradigma scientifico tentacolare chiamato «comportamentismo», i cui cardini per lo studio scientifico di umani e animali sarebbero due. A contare, in primo luogo, sarebbe l’unico dato direttamente osservabile, vale a dire il comportamento esibito dall’organismo. Decisive, poi, sarebbero le modalità di condizionamento ambientale tramite le quali è plasmata ogni forma di vita, sapiens inclusi. Dalla fine degli anni cinquanta, Noam Chomsky cominciò a sferrare una serie di colpi sempre più duri contro quel paradigma ancora oggi molto influente, almeno nel campo delle cosiddette «terapie cognitivo-comportamentali». Per comprendere il linguaggio e la mente umana è necessario, secondo lui, ribaltare il quadro: passare dalla superficie alle strutture grammaticali profonde che stanno alla base di produzione e comprensione verbale; concepire la mente non come una tabula rasa ma come una struttura organizzata da vincoli innati. Più di mezzo secolo dopo i primi attacchi al comportamentismo, Chomsky è senza dubbio il più autorevole linguista vivente e un intellettuale politicamente impegnato in una serie di battaglie che sono andate dall’opposizione alla guerra del Vietnam alla critica del capitalismo globale.

Un libro recente, La scienza del linguaggio (Il Saggiatore, pp. 435, euro 32,00) prova a stilare il bilancio provvisorio del lavoro di Chomsky tramite una serie di interviste a cura del filosofo James McGilvray: metà del testo riporta dialoghi di varia lunghezza, che coprono un ampio arco temporale esteso dal 2004 al 2009. L’altra metà è occupata da appendici finalizzate alla spiegazione dei singoli concetti, redatte da McGilvray sotto la supervisione di Chomsky, con tanto di glossario finale. Al di là degli aspetti più interni a un sistema teorico che nel corso degli anni ha subìto numerose trasformazioni, Chomsky è stimolato dall’interlocutore a riassumere le linee fondamentali del proprio pensiero. Oggi alcune delle sue teorie, per esempio quella circa il rapporto tra evoluzione e natura umana, fa storcere la bocca a molti. Secondo il linguista americano, i dati a disposizione consentirebbero una sola spiegazione coerente sulla nascita del linguaggio: in un periodo recente dal punto di vista evolutivo e relativamente breve, compreso tra centomila e sessantamila anni fa – il perido in cui i nostri antenati migrarono dall’Africa – una mutazione genetica avrebbe prodotto quello scarto improvviso che li mise in grado di produrre utensili complessi, raffigurazioni rupestri, sepolture rituali. Secondo Chomsky, sarebbe stata questa mutazione a generare la nostra facoltà di linguaggio, vale a dire la grammatica universale soggiacente a ogni lingua storico-naturale: dal greco antico al giapponese, dall’inglese contemporaneo allo swahili. La caratteristica semplice e potente di questa dotazione innata sarebbe in grado di modificare il funzionamento di tutti i sistemi cognitivi e sensoriali cui si applica: nella sua versione teorica più aggiornata, essa è riassunta da un’operazione logica chiamata Merge («unisci, fondi»), un dispositivo basato sulla ricorsività, in grado di applicarsi ai suoi stessi risultati secondo una gerarchia logica crescente, che si proietta sull’abilità di formulare parole e fare di conto, sulla fabbricazione tanto degli utensili quanto dei pensieri. Sarebbe dunque grazie a questa operazione che possiamo modulare parole, organizzare discorsi, localizzare parti di una pietra da affilare o aggiungervi un ramo per farne una lancia.

I sapiens parlano lingue differenti (si calcola che ancora oggi siano diverse migliaia) perché la codificazione genetica di una intera lingua sarebbe stata troppo complicata per i meccanismi dell’evoluzione tramite selezione naturale, che sono ciechi e lenti. Il discorso di Chomsky fa appello alla semplicità presentando un unico dispositivo formale, descrivibile in termini logici, come formula-base della specificità umana. Fatta questa concessione all’evoluzione, che prevede una sola mutazione improvvisa, Chomsky capovolge, però, il discorso. Poiché è questo e solo questo dispositivo logico a fare la differenza, rivolgersi alla etologia comparata per capire la natura umana dei sapiens è interessante come lo è ogni altra impresa scientifica, ma superfluo.

Per intravedere le profonde crepe di un’impostazione così granitica non occorre, come pure è stato fatto, richiamare casi tanto esotici quanto discussi, ad esempio lingue amazzoniche nelle quali l’operatore Merge sembra non comparire. Basta, invece, evidenziare un punto cieco interno alla teoria, e interrogarsi su quale sia la relazione tra Chomsky linguista e Chomsky politico, a dispetto del fatto che egli esclude esplicitamente un rapporto tra queste due sfere dei suoi interessi perché – dice – sarebbe impossibile dedurre un discorso dall’altro. Allo stesso tempo, nelle varie interviste a James McGilvray lo scienziato statunitense si avventura più volte a estendere la nozione di grammatica universale a un campo che egli chiama «morale», in un senso tanto ampio, però, da farlo corrispondere alla sfera etico-politica. Così come esiste, secondo Chomsky, una grammatica universale all’origine delle parole, così esisterebbe una morale innata. Perché questo secondo postulato?

Se il linguaggio verbale ha la capacità di applicarsi a ogni dominio della vita, la grammatica universale vivrebbe già di per sé dell’intreccio col mondo etico-politico: con la costruzione delle armi e il loro commercio, con le parole della guerra e della pace, col gesto del perdono e la promessa di futura vendetta. Ma Chomsky sembra scartare una soluzione del genere: avendo svilito le pratiche quotidiane del parlare e dell’agire, a suo parere semplici applicazioni di strutture innate, il carattere incerto e innovativo dell’agire politico diventa per lui un mistero. Proprio il ricorso a ciò che Aristotele chiama «prassi» e «retorica» basta a mettere in evidenza il carattere un po’ caricaturale di una rigida distinzione tra grammatica universale e atto di parola. Chomsky, allora, ipotizza un processo innato di sintonizzazione tra esseri umani simile a quel che Hume chiamava «simpatia»: sostiene la plausibilità dell’idea evoluzionista dell’anarchico Kropoktin secondo il quale gli animali vivono spesso di mutuo soccorso. Ora, queste facce costitutive della natura umana sarebbero però smentite da alcune espressioni dei sistemi istituzionali: lo schiavismo degli Stati del Sud, per esempio, o il cinismo di Kissinger.

La prospettiva espressa da Chomsky sembra essere esclusiva di chi guarda il mondo dalla finestra dei laboratori del Mit di Boston: pare infatti che il grande linguista sia ancora irretito da ciò che egli chiama «il problema di Platone». Come sarebbe possibile apprendere una lingua senza una dotazione innata che indirizzi il processo nello stesso modo in cui lo stomaco canalizza la digestione? Sia al Chomsky linguista che al politico sfugge la domanda opposta: come mai, diversamente da quanto avviene nelle altre specie, per gli umani è così difficile trovare una sintonizzazione linguistica o una intesa sociale? Se per spiegare il linguaggio e l’esistenza di una sfera pubblica fossero sufficienti un paio di meccanismi innati, perché a un bambino occorrerebbero anni per pronunciare una frase corretta? Perché sarebbe tanto difficile, anche da adulti, non inciampare nella lingua d’origine? Il paragone chomskyano con l’apparato digestivo è brillante, ma rivela un cortocircuito. A ben guardare, infatti, l’analogia non funziona né per le parole né per l’agire politico. Mentre l’apparato digerente nel bambino si attiva in presenza di cibo al di là di chi glielo fornisca (che sia un umano o un dispositivo meccanico), gli umani non riescono a parlare se privati della vita comune con altri membri della specie. Mentre una scarsa conoscenza dei processi digestivi lascia inalterato il funzionamento dello stomaco di ciascuno di noi perché non impedisce l’azione dei succhi gastrici, il mancato «risveglio delle coscienze» circa quel che Chomsky considera la natura umana (provvista di simpatia e mutuo soccorso) comporta un modo di vivere basato su diffidenza, paura e aggressione, in grado di negare il reciproco aiuto.