Letta in modo semplicistico l’ultima novella di Colm Tóibín può essere scambiata per un libro che sfrutta una trovata brillante raccontando la passione di Cristo da un punto di vista straniante, paradossalmente straniante, visto che la voce narrante è proprio la madre di colui che finirà crocifisso sul Golgota. Maria, sempre e solo Maria, mai definita come Madonna da Tóibín, si riferisce al figlio senza mai indicarne il nome. Il testo, pubblicato nel 2012 e ora consegnato ai lettori italiani con il titolo Il testamento di Maria (traduzione di Alberto Pezzotta, Bompiani, pp. 99, euro 15,00) è solo in apparenza discontinuo rispetto alle narrazioni cui lo scrittore irlandese ha abituato i suoi lettori, essendo costruito come la rievocazione di quel periodo cruciale da una Maria ormai anziana che dà voce al passato e a quelle memorie che non l’hanno mai abbandonata e ne intridono profondamente la carne e le ossa. Tutto in lei è memoria: davanti alla sua mente ripassano in continuazione gli episodi della vita di quello strano figlio che lei non ha mai compreso davvero.

Nato nel ’59 a Enniscorthy, sud-est dell’Irlanda, da una famiglia tradizionalmente attiva per la causa repubblicana, Tóibín ha scelto di rendere protagonista un’icona universale. Il testo rivela l’impianto teatrale entro cui è stato concepito: The Testament, una versione base rispetto a questo testo, è stato rappresentato sia in Irlanda che a Broadway, ed è alle spalle di questa prolungata allocuzione che la donna rivolge a immaginari ascoltatori, ai quali rappresenta i momenti salienti della vita del figlio dopo averli lasciati depositare dentro di sé, per anni e anni, e dopo aver pianto tutte le lacrime possibili. Non è semplice fare i conti con questa madre che dopo tanto tempo si mantiene così chiusa nei confronti del mondo e degli amici di suo figlio, cresciuto e improvvisamente sfuggitole di mano, divenuto uomo e così diverso da quello che lei aveva immaginato potesse diventare. Tra i due non risulta esserci dialogo, lei gli parla ma lui non pare ascoltarla. È lecito supporre che anche lei restasse indifferente alle parole di lui.

Per entrare in questo testo e cogliere le risonanze di un linguaggio intensamente allusivo abbiamo bisogno di richiamare l’universo letterario costruito da Tóibín e gli elementi che connotano il suo mondo, il suo stile, il suo avvicinamento ai lettori. L’autore è tra quelli che si aspettano molto da chi legge le sue opere, e chiede al suo interlocutore concentrazione e attenzione tali da garantire alle parole la possibilità di agire profondamente nella sua immaginazione e nella sua memoria. L’identificazione dei personaggi è immediata, anche se madre e figlio assumono da subito una valenza astratta e si fanno figure geometriche; perciò quella madre è se stessa e insieme tutte le Madri sconcertate di fronte a un figlio anomalo; a sua volta quel figlio è se stesso e tutti i Figli che proclamano qualcosa di nuovo e di diverso.

Il dramma che costituisce la novella ha a che fare non solo con la fondazione di una nuova religione ma anche con la storia eterna e continuamente rappresentata, quella del rapporto che lega e contrappone chi genera e chi è generato. Ed è sempre una storia di intensa drammaticità. Il figlio acquista una personalità che non può non apparire incomprensibile alla madre, e afferma se stesso al di fuori dell’ambito familiare. Il testamento di Maria rappresentando esclusivamente il punto di vista di lei, cioè del passato e della tradizione più consolidata, giunge alle soglie di un mondo nuovo ma non può entrarvi, e ha appunto nome e valore di testamento, di parola che agisce nel futuro. Quando i discepoli del figlio si recano a farle visita per raccogliere la sua testimonianza, lei continua a trattarli con diffidenza anche perché loro mostrano di non approvare quei racconti che non combaciano con le loro idee e con le loro memorie: maneggiano la storia di Cristo con la sicurezza di chi ha ben chiaro l’uso che dovrà farne. Quando, giunta alle soglie della morte, Maria dichiara la propria disaffezione per la sinagoga e la propria devozione per la grande Madre Artemide, il lettore ha l’effetto di un colpo di scena annunciato.

Il tema del testo è ancora quello dei legami familiari attraverso i quali si rende visibile ciò che per Tóibín resta il pilastro fondamentale della sua narrativa, il motivo della rivelazione: a un dato momento l’individuo si trova a essere il destinatario di una rivelazione che gli chiarisce chi egli sia davvero e che lo rende nuovo a se stesso e agli altri. È perlopiù un evento traumatico il cui impatto manda in crisi i rapporti dell’individuo con l’ambiente di origine, un tema trattato varie volte sul côté sessuale e omosessuale. In Amore in un tempo oscuro (ora riproposto da Bompiani) Tóibín è andato a verificare quanto la scelta sessuale di Mann, Wilde, Bacon, Almodóvar e altri abbia contribuito alla peculiarità del loro stile, ma anche quanto l’affermazione della propria individualità vada inevitabilmente a rompere il sacco amniotico nel quale la famiglia racchiude i figli. Su questo elemento Madri e figli (2006) e l’ancora più provocatorio New Ways to Kill your Mother. Writers and their Families (2012) lavorano a illuminare il processo che porta a gestire in modo consapevole il peso esercitato dalla tradizione, in termini di storia, memoria, ideologia, religione, e insieme valori, reticenze, silenzi colpevoli. Come l’episodio che l’autore ha posto a emblema del saggio New Ways of Killing Your Father, il massacro di Scullabogue (avvenuto nel 1798 in quella stessa contea di Wexford in cui l’autore è nato), quando un gran numero di protestanti tra cui donne e bambini furono bruciati vivi dai repubblicani. Tóibín sente il dovere morale e letterario di nominare e ricordare quell’eccidio, perlopiù rimosso dagli irlandesi cattolici, e di sottolineare come mai ne avesse sentito parlare da suo padre, che pure era uno storico.

Il testamento di Maria acquista ulteriori risonanze se inserito in questo tipo di contesto. Il Cristo, colui che avrebbe cambiato il mondo, non può trovare spazio presso sua madre, che lo guarderà con amore infinito e strazio altrettanto infinito, ma sostanzialmente senza riconoscerne l’identità. Lo stesso capita agli scrittori, agli artisti e agli omosessuali quando si confrontano con il proprio ambiente familiare: è necessario superare le resistenze della famiglia per poter essere capaci di superare le resistenze del contesto sociale, saper rinunciare all’amore offerto e garantito dal ‘nido’, assumere il ruolo del fallito e lavorare dispiegando i propri talenti, anche se ciò implica processi, vessazioni, condanne, e talvolta la morte. Il discorso di Maria evoca dal silenzio le parole e le azioni del figlio, che hanno luogo accanto alla madre, in uno spazio che tuttavia resta separato e a lei inaccessibile. È una contrapposizione dolorosa sotto il profilo degli affetti privati e delle prese di posizione pubbliche, ma talmente necessaria che segna di per sé la discontinuità tra due età, una che volge al termine, l’altra che germoglia.

Il libro si rivela una composizione raffinata i cui effetti sono conseguiti principalmente sul levare più che sul mettere. Proprio come avviene in quell’Annunziata di Antonello da Messina, che l’editore americano ha posto sulla copertina di questa novella. Nel rigore delle forme geometriche, nell’assenza dell’angelo e della colomba, nel panneggio turchino che drappeggia il volto trasfigurato di Maria, Antonello ha raccontato la storia di una donna trapassata da una rivelazione che resta colma di mistero.