Per dare alla luce Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution (Disfare il Demos. La rivoluzione invisibile del neoliberalismo, New York, Zone Books, 2015, pp. 292), Wendy Brown confessa di aver lasciato incompiuto un libro su Marx. Questa variazione offre una chiave di lettura per comprendere il senso del volume: nel momento in cui il neoliberalismo si afferma su scala globale, facendo il mondo e i suoi abitanti a propria immagine e somiglianza, non vi sono più contraddizioni immanenti al rapporto sociale capitalistico che sia possibile far valere politicamente contro il suo dominio.
Non c’è più alcun rapporto sociale: l’affermazione incontrastata dell’homo oeconomicus trasforma tutti i soggetti in «capitale umano», così che il lavoro scompare dal discorso e dalla realtà. Marx diviene inutile. Brown ha sempre guardato con sospetto al determinismo e alle facili teleologie di certo marxismo. Per lei l’imperativo di pensare «fuori dalla storia» è sorto dalla necessità di liberarsi dalle grandi narrazioni e dalle storie progressive che hanno prodotto e legittimato un mondo saturo di potere.

Politicamente impegnata senza essere immediatamente orientata all’azione, la teoria politica è stata per Brown lo strumento di una decostruzione spregiudicata. Insieme a un uso di Marx niente affatto ortodosso, ciò le ha permesso di sviluppare alcune delle critiche più pregnanti al discorso dei diritti, all’idea liberale del soggetto sovrano e alla sovranità moderna. Ora la nostalgia teorica prende il posto della spregiudicatezza. Se la critica è «il tentativo di comprendere gli elementi costitutivi e le dinamiche della nostra condizione» per individuare un’alternativa percorribile, questo tentativo è condizionato dall’apparente impossibilità di trovare all’interno dell’ordine neoliberale i punti d’appiglio per contestarlo. L’alternativa è il ritorno a un passato sorprendentemente idealizzato: la democrazia liberale diventa l’unica speranza rimasta «per un futuro giusto e sostenibile».

Il patto diabolico
Il futuro della democrazia è il problema di fondo dell’intero volume. Il neoliberalismo non vi appare solo come un insieme di politiche economiche, ma come un ordine normativo della ragione che nel corso degli ultimi trent’anni ha saturato con la propria razionalità di governo ogni ambito della vita umana. Questa riflessione si muove esplicitamente nel solco della Nascita della biopolitica, ma a Foucault Brown non lesina le critiche. Egli ha indicato la necessità di liberarsi dall’ossessione dello Stato per pensare il potere come qualcosa che circola tra gli individui, ma non ha colto l’esistenza di una dimensione politica irriducibile alla sovranità statale, di un popolo distinto dalla popolazione alla quale si applica la razionalità di governo.
Brown non intende la democrazia come una forma politica, ma alla luce del valore intrinseco dell’«autogoverno del popolo» contro le logiche spoliticizzanti di governance e management. Il neoliberalismo impone l’«economizzazione» dello Stato e così rovescia il moderno «contratto sociale»: particolarmente in un contesto di crisi e politiche di austerity, agli individui è imposto un sacrificio in nome del tutto che però non si accompagna ad alcuna speranza di risarcimento.

Nessuna sicurezza è garantita, ciascuno è responsabilizzato per il proprio successo o insuccesso, finanche per la propria sopravvivenza.
Ciò che più importa, tuttavia, è l’effetto antropologico di queste trasformazioni: «siamo ovunque e soltanto homo oeconomicus». L’impegno per incrementare il nostro capitale umano e accrescere la nostra competitività si sostituisce a quello nei confronti della vita pubblica. Il neoliberalismo disfa il demos e le condizioni di possibilità della democrazia.

L’ascesa dei falliti
Per Brown, Foucault oscilla tra una lettura del neoliberalismo in continuità con il liberalismo e una orientata a coglierne la specificità. Perciò non ha potuto vedere che l’homo oeconomicus è per lungo tempo coesistito con l’homo politicus, del quale solo il neoliberalismo sta decretando la scomparsa imponendo all’Occidente una svolta «rivoluzionaria». L’homo oeconomicus neoliberale non si afferma nel XVII secolo, come ritiene Foucault. Per dimostrarlo, però, Brown non avanza fino agli economisti neoclassici, che hanno «inventato» questo modello di comportamento nella seconda metà dell’Ottocento, ma risale fino ad Aristotele.
Fuori dalla storia della schiavitù, sarebbe stato lui – seguito da Arendt e da un Marx ridotto a liberale radicale, fuori dalla storia della lotta di classe – a inaugurare una concezione della politica come «buona vita» che eccede la semplice sopravvivenza e a «respingere» l’ascesa dell’homo oeconomicus. A partire da Aristotele si afferma una superiorità del politico sull’economico che sopravvive anche nel XVII secolo per diventare il segno distintivo del liberalismo tout court. Questo segno lo si può ritrovare anche in Smith, Bentham e J.S. Mill, tutti partecipi di una concezione dell’individuo come unità sovrana irriducibile a un riflesso del capitale.

Questa revisione della genealogia foucaultiana non mira però a verificare la definizione storica e la valenza analitica della categoria di homo oeconomicus, ma a restituire al liberalismo una perduta innocenza emblematicamente rappresentata dallo stato di natura di John Locke nel quale, secondo Brown, ciascun individuo è incaricato del compito eminentemente politico di discernere e rendere esecutive le norme di giustizia per il comune.

La riabilitazione del padre dell’individuo maschio, bianco e proprietario avviene in nome della restaurazione di un homo politicus che sarebbe più promettente dell’homo oeconomicus persino per la femina domestica, la cui subordinazione nel regime della divisione sessuale del lavoro è intensificata dal neoliberalismo. Brown coglie bene il modo in cui – quando il capitale umano è interamente responsabilizzato per il proprio successo o insuccesso – le donne sono penalizzate perché più responsabili nei confronti di quelli che non possono esserlo, i loro figli e gli anziani.

Incapaci di stare al passo della competizione, le donne diventerebbero perciò soggetti falliti, oppure potrebbero affermarsi come soggetto soltanto neutralizzando la propria determinazione sessuale, diventando a loro volta homo oeconomicus o, come Brown suggerisce, ripiegando verso un più benevolo homo politicus. Si può quindi dire che, per lei, siamo oltre la semplice esclusione o inclusione differenziata che il discorso liberale ha storicamente imposto alle donne, perché il neoliberalismo le include in una distinzione tra sommersi e salvati tutta interna alla sua grande narrazione. Il neoliberalismo si rivela come il più freddo dei mostri, capace di fagocitare ciò che sembra contraddirlo.

Eppure, Brown pare cogliere la resistenza di alcune contraddizioni al regime di verità neoliberale quando imputa a Foucault l’incapacità di comprendere che «capitale e capitalismo non sono riducibili a un ordine della ragione». Se questo è vero, allora non è chiaro come si possa contestare l’affermazione generalizzata dell’homo oeconomicus senza pensare appunto alle contraddizioni che squarciano la sua pretesa normativa. Si può ammettere che la semantica del capitale umano cancelli il lavoro dall’ordine del discorso, ma non è scomparso chi lavora sotto il dominio del capitale. Eppure, solo in una nota Brown ricorda che il capitale umano è «subordinato a chi lo impiega», benché chi lo impiega sembri coincidere con chi ne è titolare, secondo un principio di auto-valorizzazione.

Effetto disperazione
Se la critica femminista dell’ordine liberale aveva permesso a Brown di svelare ciò che esso pretendeva di nascondere – il lavoro riproduttivo delle donne che sosteneva la figura dell’individuo sovrano – ora la sua critica foucaultiana dell’ordine neoliberale rischia di supportare la sua pretesa di verità, senza indicare i punti in cui il discorso vacilla ma ripiegando sulla speranza di poterlo contestare grazie a una diversa razionalità politica. Siamo fuori dalla storia perché la storia del neoliberalismo di cui la democrazia liberale è parte integrante è cancellata, pur lasciando dietro di sé un malinconico ricordo che permette di farne una speranza per il futuro oltre la disperazione del presente.

Per Brown questa disperazione è l’effetto del «postpostmodernismo» della ragione neoliberale, che sancisce la fine della modernità perché abbatte ogni fiducia nelle capacità umane di realizzare un’alternativa. Qui il prefisso post non indica un presente che, pur introducendo una discontinuità, continua a essere strutturato dal passato, come Brown l’aveva inteso nei suoi lavori precedenti.

Piuttosto, la duplicazione del post cancella il passato, cosicché diventa più difficile afferrare la discontinuità introdotta dal neoliberalismo e raccogliere fino in fondo il problema posto da Brown in merito alle condizioni di pensabilità e praticabilità di un’alternativa allo stato di cose presenti. Brown può mettere tra parentesi il rapporto storico tra democrazia liberale e capitalismo nella convinzione che gli ideali della prima abbiano storicamente prodotto ispirazioni e aspirazioni radicali che hanno portato la democrazia liberale oltre se stessa e che dovremmo riconquistare. Se riconsegniamo il presente alla sua storia, però, dobbiamo domandarci come possa affermarsi una nuova razionalità democratica indipendentemente dalla contestazione radicale dei rapporti sociali.

Occupy e non solo
Questo non è un problema di Brown, che si limita a constatare che la democrazia non ha mai avuto bisogno di una materiale uguaglianza delle condizioni. Non stupisce, allora, che consideri il movimento Occupy in modo molto diverso da Chandra Talpade Mohanty, che nel 99% che occupava Wall Street aveva riconosciuto una parte – il «Mondo dei due terzi» – che aspirava a contestare il dominio globale del capitalismo.

Per Brown si tratta invece di una sorta di affermazione di ritorno della sovranità di tutto il popolo contro il governo di una parte, i finanzieri, senza che sia peraltro chiaro come soggetti interamente investiti dalla ragione normativa neoliberale abbiano potuto conquistare il desiderio di contestarla. Marx può ancora offrire strumenti alla critica, ma solo accessori: il neoliberalismo non è una totalità che si muove secondo un’interna necessità dialettica, ma agisce in modo asistematico, incostante, differenziato.
Paradossalmente, però, esso si rivela più totalizzante del capitale inteso come sistema globale, al punto che l’unica alternativa percorribile non sembra un «andare oltre», ma un ritorno al passato, qualcosa che sta fuori dalla storia del neoliberalismo. Come la grande narrazione della democrazia liberale possa affermarsi come alternativa è qualcosa a cui la teoria politica non può dare risposta. Non perché mantenga una virtuosa e spregiudicata distanza dalla prassi, ma perché gli strumenti con cui pretende di criticare il neoliberalismo sono una parte essenziale del suo ordine normativo. E questo disperato paradosso è la storia della sua critica.

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