Un tempo lontano, quando nella prima Repubblica dei governicchi e del proporzionale un partito perdeva nel voto anche solo una frazione di punto, si sentivano talvolta i leader lamentare: «Il popolo non ci ha capito». Un vizio antico, che cogliamo ancora oggi nei commentatori – come Scalfari – che rimbrottano tutti: da Renzi che ha rifiutato il reincarico per il proprio interesse personale ai giovani che hanno votato in massa No ai 19 milioni che non hanno visto dove stava il bene dell’Italia.

Non hanno capito.

Certo, la situazione era ed è difficile. Per i manuali di diritto costituzionale un referendum popolare che evidenzi un contrasto insanabile con punti fondamentali dell’indirizzo di governo giustifica lo scioglimento anticipato delle camere da parte del Capo dello Stato. Questo per l’ovvia ragione che per un sistema democratico è in principio inaccettabile che rimanga al potere chi ha fatto scelte radicalmente contrapposte al voto espresso dal popolo sovrano. Ancor più se il contrasto trova origine in una legge elettorale incostituzionale e nei numeri parlamentari in conseguenza taroccati.

La domanda è: la legge Renzi-Boschi era un punto essenziale dell’indirizzo di governo? Certamente sì, per la sua oggettiva natura, e perché lo stesso premier l’aveva confermata come tale, con i comportamenti nel corso dell’approvazione, le dichiarazioni che la definivano decisiva, le modalità di una campagna referendaria per ogni verso eccessiva, le promesse di dimissioni e di abbandono della politica in caso di sconfitta. È stata una sua scelta.

Un profondo scollamento tra istituzioni e popolo è stato certificato dal voto e va sciolto quanto prima. Non rilevano più le motivazioni che hanno spinto singoli soggetti a sostenere il No. Anche se la Borsa festeggia, politica e istituzioni si trovano in una situazione precaria, determinata da chi ha cercato lo scontro e il plebiscito, che prescinde dalla fiducia parlamentare.

Un sistema in salute risponderebbe con l’immediato scioglimento delle Camere. Ma non possiamo, e non per il terremoto, o la crisi Monte Paschi, che per l’urgenza potrebbero essere affrontati da qualunque governo in carica, con fiducia o senza. Non possiamo perché le pessime scelte del governo hanno lasciato la legge elettorale monca per una delle Camere, rendendola impraticabile. Non possiamo perché la Corte costituzionale ha ritardato la pronuncia sull’Italicum, non volendo turbare il percorso referendario posto dal governo all’ultimo momento utile per elargire le sue inutili mancette.

E dunque con Paolo Gentiloni arriviamo al paradosso di un governo fotocopia. Un restauro conservativo del renzismo al potere. Un ulteriore paradosso è che questo governo fotocopia non potrà non disfare punti nodali dell’indirizzo del governo Renzi: anzitutto, la legge elettorale. La frattura tra istituzioni e popolo viene dalla torsione ipermaggioritaria del Porcellum previgente. E quindi l’Italicum – che quella legge riprende e ribadisce – va rivisto a fondo per entrambe le Camere, aprendo la via a un recupero di impianto proporzionale, con un parlamento ampiamente rappresentativo e libero da distorsioni stravolgenti.

Ma non finisce qui, perché incombono i referendum Cgil sul Jobs Act. E nei 19 milioni di No c’è il popolo dei voucher, dei diritti persi, dei giovani precari privati di speranze e futuro.

Uno dei pilastri del renzismo è stato infranto il 4 dicembre. Un’altra tempesta perfetta è già in agenda, e rende improbabile una legislatura ingessata fino al 2018, come se nulla fosse accaduto. A meno di una immediata e radicale rivisitazione del Jobs Act, basterà la paura di un altro devastante colpo a far sciogliere anticipatamente le Camere, per ritardare il referendum di un anno.

Le facce più emblematiche del governo defunto sono ancora in squadra. Maria Elena Boschi perde i galloni da ministro, ma non cala nella misura di potere reale. Per la salute pubblica e quella privata, consigliamo a Gentiloni di espungere completamente dal lessico di governo le «necessarie» riforme, non bastando la soppressione del Ministero apposito. Quanto a noi, lavoreremo per tenere in campo il popolo del No, in una prospettiva di sinistra necessaria e nuova.

Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra.