«Gli uomini creano e distruggono, non importa quanto tempo passa fra un’azione e l’altra. Importa chiedersi il perché. E soprattutto se si può fare qualcosa per impedire che un simile processo si compia. Ecco, salvaguardare i beni culturali significa arrivare prima, semplicemente». A pronunciare queste parole, attraverso la penna di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, è un archeologo alla cui coscienza etica si dovrebbe guardare oggi più che mai. Oro dentro (Skira, pp. 187, euro 16) non è solo la biografia «romanzesca» di Fabio Maniscalco ma anche un libro di denuncia delle guerre che distruggono città e monumenti, strappando l’anima a luoghi e persone. Il racconto proietta subito nel buio della Bosnia-Erzegovina, che Maniscalco raggiunge nel 1996, al seguito della Brigata Garibaldi, come bersagliere in ferma breve e col compito di documentare le devastazioni di un paese macchiatosi di un crimine abominevole: bruciare la biblioteca di Sarajevo e, con essa, le prove di una secolare, pacifica convivenza fra etnie. «Il mestiere dell’archeologo è uno dei pochi che si fa veramente per vocazione», scriveva nel 1964 Gianni Roghi. Ma non tutti gli archeologi sono fedeli a quell’orizzonte di giustizia che Maniscalco aveva sempre davanti a sé. Sudiro e Rispoli vanno dunque a ritroso, agli anni della laurea all’Università Federico II e del perfezionamento al Suor Orsola Benincasa di Napoli.

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L’archeologo Fabio Maniscalco

Proprio nella sua città, Maniscalco collabora con la Criminalpol e la Procura della Repubblica per la lotta alle «archeomafie», senza rinunciare agli scavi e alla sua grande passione: l’archeologia subacquea, disciplina alla quale darà un contributo scientifico fondamentale. Gli autori di Oro dentro, entrambi giornalisti, alternano la narrazione dei percorsi del tenente-archeologo a episodi più «sentimentali», con uno stile a tratti cronachistico, a tratti letterario. Il testo è arricchito dalle dichiarazioni di studiosi, alte cariche militari e diplomatiche con cui il protagonista ha interagito nel corso della sua carriera.

Non mancano, inoltre, testimonianze che aiutano il lettore a inquadrare i contesti politici in cui si svolgono le azioni di Maniscalco. Dal ricordo di Louis Godart, sotto la cui guida si formò negli scavi minoici di Apodoulou a Creta fino al resoconto di Angelo Fratini, che lo affiancò nel 2000 in Kosovo nell’ambito di un progetto del ministero degli Esteri, traspare l’ostinata volontà dell’archeologo a salvare anche il più piccolo frammento del passato, senza mai trascurare i diritti dei popoli a possedere una memoria. Come la volta che con Mariarosaria – sua compagna di studi e di vita – si calò nella cappella rupestre sotto la Collina dei Camaldoli per segnalare il degrado degli affreschi, la difesa del patrimonio è una missione che adempierà fino alla morte, soprattutto laddove gli eventi bellici rendevano più fragile la sopravvivenza della Storia.

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Biblioteca di Sarajevo

D’altra parte, che la tutela dei beni culturali vada programmata in tempo di pace, Maniscalco non perdeva occasione per dirlo. In Ius praedae. La tutela dei beni culturali in guerra – pubblicazione che vide la luce alla fine delle ostilità in Serbia – aveva evidenziato la gravità della mancata applicazione dell’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del 1954, ratificata da più di settanta paesi, la quale prevede l’istituzione di personale specializzato in materia di beni culturali da impiegare in situazione di crisi. Nel 2004, Maniscalco perverrà ad appendere la bandiera con lo scudo blu (simbolo della convenzione, ndr) nei territori palestinesi – scossi allora dalla seconda Intifada e sfregiati da un Muro che cancellava i siti archeologici non considerati ebraici – affinché monumenti storici di Nablus e Hebron vengano risparmiati dalle demolizioni. Intanto, nel dicembre 1999, aveva fondato l’Osservatorio permanente per la protezione dei beni culturali e ambientali in area di crisi (Opbc), mentre otto anni dopo nascerà per sua iniziativa il Web Journal on Cultural Patrimony, rivista alla quale saranno affidate importanti riflessioni, a cominciare dall’abbattimento dei Buddha di Bamiyan.

Nel 2006, durante la guerra tra Israele e Libano, la voce di Maniscalco si levò talmente forte che Ehud Olmert assicurò apertamente di non voler colpire le antiche città di Tiro e Baalbek. Nel restituirci gli ultimi, dolorosi momenti di un’esistenza spesa per la salvaguardia del patrimonio dell’umanità, Sudiro e Rispoli menzionano anche l’appello dell’archeologo napoletano al premier turco Erdogan per il recupero delle mura trecentesche genovesi affiorate durante la costruzione della metropolitana di Istanbul. I metalli pesanti inalati durante le ricognizioni per il monitoraggio dei monumenti danneggiati nei Balcani – i medici riscontrarono nel corpo di Maniscalco anche detriti di oro – hanno interrotto il coraggioso cammino di un outsider dell’archeologia italiana.

Unico docente a insegnare Tutela e valorizzazione dei beni culturali in aree mediterranee, era troppo «puro» per l’Università e altrettanto scomodo per l’esercito, nelle cui fila s’impegnò strenuamente – da volontario – affinché la difesa del patrimonio fosse tra gli obiettivi delle missioni Ifor (Bosnia) e Alba (Albania). Le pagine finali di Oro Dentro hanno quasi la forma di un dossier che documenta la malattia di Maniscalco, spentosi nel 2008 a quarantadue anni a causa dell’esposizione all’uranio impoverito.

Assieme alla trowel, gli studenti di archeologia dovrebbero avere nello zaino questo libro. A loro spetterà il compito di riprendere la strada in un presente ancora afflitto da distruzioni, facendo della tutela del patrimonio culturale un principio irremovibile e una scienza pragmatica. Come ha dimostrato Maniscalco, il sapere non può rimanere né astratto né fine a se stesso. Occorre essere militanti, cercando di capire con la medesima onestà la bellezza di un reperto archeologico e i tragici effetti di una cluster bomb.