È una star più controversa di quel che sembri, mr. Bruce Springsteen. Moltissimi lo adorano, ma non sono pochi neppure quelli che ne pensano più o meno tutto il male possibile, e spesso sono proprio i più appassionati di musica a storcere il naso. Hanno qualche buon argomento dalla loro. Springsteen non è un musicista eccezionale come Van Morrison o un innovatore geniale come Phil Spector, i suoi testi non hanno la potenza ineguagliata di quelli di Dylan, le sue canzoni non vantano la connessione profonda con l’animo di un intero popolo che trasforma i capolavori folk di Woody Guthrie in classici senza tempo e quasi senza autore, voci di un popolo. Solo per citare gli autori che più di ogni altro hanno influenzato Springsteen dai punti di vista, rispettivamente, dell’impostazione vocale, dell’orchestrazione, della poetica e della missione sociale.

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Allora perché, nonostante tutto, Bruce Springsteen è un musicista e un autore del tutto degno di reggere il paragone con questi giganti, e per certi versi persino più significativo di tutti loro, Dylan escluso? Una risposta aiuta a trovarla Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro, i sogni (Donzelli, pp. 216, euro 25), il volume appena dedicato all’opera del «Jersey Devil» da un Sandro Portelli particolarmente ispirato. Un libro che è anche una dichiarazione d’amore, e che proprio in virtù di quella passione, la stessa che anima gli adolescenti alla scoperta dei loro primi dischi, sfugge alla minaccia sempre incombente quando l’accademia si occupa di cultura popolare e di massa: quella dell’erudizione devitalizzante.

Il sogno infranto

All’interno di un impianto giustamente poco strutturato, dissezionando i testi e alternando l’analisi degli stessi con rapidi flash di esperienze dirette tutte in un modo o nell’altro legate all’oggetto del suo studio, Sandro Portelli colloca l’opera di Springsteen all’incrocio di due tematiche portanti, che formano quasi per intero l’essenza dell’universo springsteeeniano: il sogno americano e il lavoro. Non c’è modo di separare il rocker born in the Usa dall’American Dream, in tutte le sue diverse sfaccettature. Ma è un sogno americano colto nel momento del declino, vissuto e rimpianto e inseguito di nuovo proprio quando per la prima volta si dissolve la sua anima più intima e se ne inceppa il motore: la mobilità sociale, la certezza che per i figli la vita sarà comunque migliore che per i genitori.

Ugualmente quel sogno Bruce Springsteen non prova mai a smantellarlo, la tentazione di demistificarlo neppure lo sfiora. Lo rivendica, anzi, e lo invoca . Anche per questo Jim Cullen , in uno dei primi e migliori studi sulla rockstar di Freehold (frequentemente citato anche da Portelli), lo indica come erede della grande tradizione repubblicana, sia pure nella corrente opposta a quella di Reagan o della stirpe dei Bush.

Il rapporto di Bruce Springsteen con il patriottismo e la bandiera a stelle e strisce, segnala giustamente Portelli, è più complesso di quanto possa sembrare al radicalismo italiano, con tutte le sue tare di ingenuo e manicheo ideologismo. Springsteen, come del resto lo stesso Woody Guthrie, è intriso di spirito patriottico. Quando critica l’America lo fa in nome dell’America e di quel «vero» sogno americano che è stato tradito ma non ucciso né dimenticato. Il famoso tentativo reaganiano di appropriarsi di Springsteen, negli anni Ottanta, era una spudorata falsificazione, ma immaginarselo come una specie di militante anti-americano è altrettanto falso, e forse anche di più.

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Il mito della libera comunità

L’altro versante fondamentale dell’American Dream, quello della mobilità non sociale ma spaziale, è ancor più presente, sin dai primi testi di Springsteen. Però, nota Portelli, con uno scarto fondamentale rispetto alla mitologia classica d’America: i protagonisti di queste canzoni non se ne vanno mai da soli verso l’orizzonte. Partono, o sognano di farlo, in coppia, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, un «noi» che apre la strada al Springsteen più recente e lo anticipa, a quel We Take Care of our Own, che si allontana dal mito solitario dell’eroe americano ma solo per avvicinarsi a quello, altrettanto fondativo della libera comunità che «si prende cura di se stessa».

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Quello da cui i personaggi di Springsteen fuggono è il lavoro. Onnipresente nelle canzoni giovanili di Springsteen ma anche, sia pure in forme diverse, in quelle mature, il lavoro era il grande rimosso del rock’n’roll, dice Portelli: ciò che non si poteva nominare nei dischi che facevano ballare e impazzire i teens dei Cinquanta e Sessanta.

Bruce Springsteen viola il tabù: lo sposta la centro del suo mondo, nella stessa postazione che occupa nelle vite dei suoi personaggi e del suo pubblico. Gente che sbarca il lunario facendo lavori uninspiring, come li definisce Portelli citando la strofa aggiunta da Bruce alla Jersey Girl di Tom Waits, jobs e non careers come preferisce specificare Jim Cullen: quei lavori, primo fra tutti quello di fabbrica, che non ti danno niente se non quattro soldi per sopravvivere a stento, che ti svuotano la vita invece di riempirla e che tuttavia sono sempre meglio della disoccupazione che distrugge le esistenze e gli amori di tanti altri protagonisti di queste canzoni.

Ma è lavoro anche quello che vengono a cercare i migranti di Ghost of Tom Joad e di Devils and Dust, ed è lavoro, aggiunge Portelli, farsi il mazzo sul palco quattro ore ogni sera sfidando il pubblico a chi regge di più.

Genealogie operaie

Quello di Springsteen, idealmente, è il lavoro che dà dignità, che dovrebbe essere per tutti quel che era per mamma Zirilli in The Wish, quello che offriva orgoglio e identità persino agli operai dell’inferno siderurgico di Youngstown. Quando ancora c’era. Bruce ci crede, come crede nell’american dream, ma è la stessa fede colma di di rimpianto per qualcosa che non c’è più.

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Quello di Bruce Springsteen viene definito spesso come un «rock maturo», proprio per la capacità di parlare, per empatia e genealogia operaia se non per esperienza diretta, delle vite reali di chi lo ascolta. Questo, sottolinea l’autore, è comune nel country. Non nel rock’n’roll, la cui missione era in realtà opposta: spezzare le catene della realtà di ogni giorno con un impeto di pura energia, romantica o festosa oppure, spesso, rabbiosa, ma sempre incompatibile con working life.

Rispetto a quella tradizione Bruce Springsteen rappresenta la massima eresia, perché mette al centro proprio ciò che andava dimenticato, e la massima ortodossia, perché di quella medesima energia adolescenziale fa l’antidodo in grado di contrastare il declino non solo del sogno americano ma della capacità di sognare in generale, il fortilizio inespugnato di una fede che, limitando la lettura ai testi, non avrebbe quasi più possibilità di resistere.

Oltre il muro del suono

(KIKA) - ROMA - A quattro anni di distanza Bruce Springsteen è ritornato a suonare e a far cantare i fan romani con uno spettacolo con la S maiuscola.Il Boss, questo è il soprannome del celebre rocker, ha incantato con la sua voce e il suo dinamismo i trentadue mila fan che si sono ritrovati all'interno dell'Ippodromo delle Capannelle. Springsteen è solamente una delle tante stelle della musica che quest'anno partecipano alla rassegna canora Rock in Roma. Il calendario, oltre alle performance di Iggy Pop e dei Green Day, prevede - tanto per citarne qualcuna-  quelle di Zucchero il 24 luglio, Neil Young il 26 e  i Blurn il 29. 

Anche se quello di Portelli è soprattutto uno studio sui testi, l’autore non manca di sottolineare come spesso le parole e la musica viaggino in direzioni contrastanti, con il ritmo tirato che contraddice la mestizia della storia: basti pensare alla distanza tra la versione originaria e acustica di Born in the Usa e la sua trasformazione in sin troppo trionfale inno rock.

Sprigsteen, poi, non è solo musica e parole: è anche, forse soprattutto, un performer artist e le sue lunghissime, trascinanti perfomances non sono mai solo concerti ma cerimoniali collettivi di cui l’artista è l’officiante, animatore di feste il cui obiettivo non è più esorcizzare o far dimenticare la realtà delle vite comuni ma riconoscerla e ciononostante spingere a non farsene piegare grazie alla stessa fede e alla stessa energia che il rock’n’roll ha regalato agli adolescenti per decenni.

Per questo fa confluire tutto e tutti, la visionarietà di Dylan, l’impegno di Guthrie, il «muro del suono» di Spector in quell’oceano che per Springsteen, e non solo per lui, è ancora Elvis Preslyy.

Prima di lui non lo aveva fatto nessuno. Come lui, nessuno è in grado di farlo. Sarà abbastanza per definirlo uno dei grandissimi della musica popolare americana e non solo americana?