Forse Anzaldi era distratto al tempo in cui un deputato craxiano indirizzava le sue invettive contro Samarcanda e Rai3: si chiamava Ugo Intini ed era una specie di bestia nera per Santoro e Curzi. Anzaldi sembra privo della memoria necessaria per non passare da protagonista alla storia della censura in Rai, storia infinita e a volte ridicola.

Ma chi è Michele “Ugo” Anzaldi? Uno che ha fatto il giornalista e l’addetto stampa di Rutelli, che era a Milano, Italia, gestione Riotta, uno che sa di media e non uno sprovveduto; com’era tutt’altro che sprovveduto Intini, che pure esercitava per conto di Craxi il ruolo di “manganellatore” della Terza rete.

Forse è uguale il riflesso d’ordine, quel fondamentalismo cieco che, se non hai gli anticorpi giusti, ti prende quando sei al potere, che agiva allora su Intini facendone una figura “tragica” (con tutto il rispetto Giannini non è Santoro e Ballarò non è Samarcanda), ma che oggi fa scivolare nel ridicolo il deputato palermitano.

Perché tra fondamentalismo e ridicolo il confine è sottile ed “Ugo” Anzaldi questo confine l’ha attraversato più volte.

Sin da quando balzò alle cronache a marzo 2014, con un tempismo rivelatore (Renzi premier da pochissimi giorni), per la lettera alla presidente Rai Tarantola in cui denunciava l’imitazione della Boschi fatta da Virginia Raffaele (Ballarò) e chiedendole se la «condivideva»; come se un’imitazione si potesse condividere! Una satira nemmeno feroce, solo l’innocua caricatura dei tratti femminili della neoministra, più che censurabile, però, poiché «un ministro giovane e capace» non può essere ritratto dal servizio pubblico «come una scaltra ammaliatrice». Nemmeno ai tempi di Noschese, e delle sue bonarie imitazioni politiche (La Malfa con lenti dallo spessore raccapricciante, Andreotti con orecchie a bandiera), si erano sentite simili intemerate.

Con l’affermarsi del potere renziano, quella che poteva sembrare un’uscita estemporanea, si è fatta pratica da gendarme con l’ossessione degli avversari.

Con qualche aspetto bizzarro: come quando a pochi giorni dalle elezioni europee Grillo annuncia che si presenterà a Porta a Porta con il plastico di un castello con dentro i politici e lui reagisce chiedendo inopinatamente all’Agcom se ciò (il plastico) non fosse una violazione della par condicio.

Anzaldi, che fa finta di non vedere lo strapotere mediatico di Renzi, sanzionato proprio in quei giorni dall’Agcom, poi se la prende per la visibilità concessa sul Jobs act alla Cgil e alla Fiom, rei di non pensarla come il governo. La stessa colpa che attribuisce a Tobagi e Colombo, che votano con il Cda della Rai contro il taglio dei 150 milioni di euro all’azienda.

Fino ai fatti più gravi, e più recenti.

Le accuse in autunno di disallineamento a Rai3 e al Tg3 (che pure più di altri avevano amplificato le gesta del capo costringendo l’Agcom ad intervenire), responsabili, secondo Michele “Ugo” Anzaldi, di non avere a sufficienza «seguito il percorso del Partito democratico». O la pelosissima solidarietà a Minzolini all’indomani della condanna per abuso d’ufficio comminatagli per la gestione del Tg1 ai tempi di Berlusconi, una solidarietà solo di poco precedente l’ultimo violento attacco a Giannini e l’incredibile richiesta di cacciarlo.

Spalleggiato in questo da un pezzo del Pd (e dal silenzio di Renzi) in quello che appare sempre più come il tentativo suicida dei vertici del partito di cancellare le tracce delle battaglie del passato a difesa della libera informazione.

Da parte nostra siamo convinti che «la Rai deve conquistare autonomia», che per farlo occorra debellare l’intreccio perverso «tra Rai e partiti, spesso tollerato come un male minore», che invece «finisce per rendere difficile il funzionamento stesso dell’azienda», affidando «a una Fondazione la proprietà e la scelta delle strategie e dei vertici della Rai». In maniera da garantire la qualità e «l’autonomia del servizio pubblico dal governo».

Come del resto sta scritto in una proposta di legge sulla “Disciplina e organizzazione del servizio pubblico generale radiotelevisivo”, presentata alla Camera il 26 gennaio 2015, firmata: Michele Anzaldi. Se non è un’omonimia, ci preoccuperemmo. Per lui.