Vent’anni fa, racconta Kenneth Frampton, Alvaro Siza gli disse: «Ho molti progetti ma non sono contento. Come si può essere contenti quando l’Europa non ha un progetto?».
Risuona sullo sfondo questa domanda mentre visitiamo la mostra Alvaro Siza. Inside the human being (fino al 8 febbraio 2015) in questi giorni allestita al Mart di Rovereto da Roberto Cremascoli insieme a Chiara Porcu e allo stesso architetto portoghese. È al vecchio continente, infatti, imprigionato dalle politiche di austerità, immobile davanti alla crescente disoccupazione e all’estendersi dei riflussi nazionalisti, che va il nostro pensiero guardando i disegni, i modelli e le foto dei progetti esposti.
Giunto alla sua maturità Siza deve prendere atto che l’Europa continua a non avere un progetto inteso come superamento delle disuguaglianze tra paesi e tra i suoi cittadini. Tuttavia, con instancabile impegno, prosegue la sua tenace battaglia contro un’architettura ridotta a mezzo persuasivo e di seduzione, estetizzante e astratto come lo richiede il cinismo della speculazione finanziaria globale. Abbiamo chiesto all’architetto portoghese di discutere con noi dei temi della mostra, ma al termine della nostra conversazione ci siamo resi conto di avere assistito a una lezione sull’architettura e sui suoi principi guida, quelli che la rendono «autentica» e «solida» qual è quella di un grande maestro.

La mostra di Rovereto intreccia due temi importanti: l’Europa e la modernità. L’Europa è quella delle città nelle quali lei ha lavorato con impegno e che si trova prigioniera delle politiche di austerità, mentre la modernità è sottoposta alla revisione ideologica iniziata con la crisi dei suoi valori di democrazia e di progresso. Qual è lo spazio per un’architettura «agonistica», come chiede Kenneth Frampton?

So bene cos’è il rigore economico dell’Europa e lo soffro. Penso che l’architettura potrà essere «agonistica» se ci saranno le opportunità. In Portogallo, come sapete, c’è una situazione politica molto particolare. Ho potuto lavorare perché l’architettura è stata intesa come un servizio rivolta alla maggioranza delle persone e non a un principe. Questa condizione non è stata però costante, a volte è rara, e in questo momento c’è una scarsità di lavoro che non permette agli architetti di avere quelle opportunità per fare con coscienza qualcosa di importante. Prima ancora, quindi, della resistenza è importante che si trovino le giuste occasioni. Gli architetti devono impegnarsi a trovarle e ad approfittarne.

In contrasto o in alternativa ai valori della modernità, c’è un orientamento che sostiene un’architettura senza architetti, l’idea che degli architetti, in fondo, se ne potrebbe fare a meno. È questo un argomento speculare e in chiave anch’esso antimoderno dell’uso strumentale del passato che ci dovrebbero far riflettere…

Credo che l’architettura del passato sia qualcosa che riguarda in modo diretto la modernità. Per me conta molto la continuità che non significa certo passività. Pur nella più rivoluzionaria delle architetture si può notare rapidamente quali sono le sue basi, le sue fondamenta rivolte alla storia. Anche quelle opere che sembrano più distanti dal passato hanno delle qualità che rimandano alle loro origini. Ad esempio nella Villa Savoye di Le Corbusier, se si guarda bene, ciò che appare come completamente nuovo non lo è perché anche il Mercato di Venezia è su pilotis, la terrazza non è un’invenzione dal momento che la ritroviamo in Henri Sauvage a Parigi e per le finestre orizzontali ci sono molti esempi precedenti. Si deduce che, in un determinato momento storico e in un particolare contesto, ciò che si configura come nuovo non esisterebbe se non fosse in continuità con il passato. L’architettura è un processo continuo di rifacimento degli stessi elementi.

In questa sua lettura delle cose, che ruolo gioca il dibattito critico che sembra a volte assente, non meravigliarsi più di nulla e tollerare tutto?

Ciò che vedo è che si discute ancora molto di architettura. Ad esempio, in Portogallo, la stampa dà ampio spazio ai commenti su ciò che si costruisce, ma sappiamo che quando si parla troppo di una cosa vuol dire che questa è in crisi. Non vedo, quindi, una mancanza di dibattito, piuttosto un forte condizionamento nelle decisioni che riguardano l’esecuzione o meno di un’opera; molte volte questi centri che influenzano le scelte dell’architettura sono incontrollabili e rispondono a interessi particolari.
Oggi in Europa tutto passa attraverso concorsi pubblici. Sappiamo che nella giuria i giudizi sono variabili, soggettivi ed è lì che si manifestano gli interessi politici che ricercano la realtà spiegata per immagini. Il giudizio si esprime solo attraverso la selezione e la scelta dell’immagine che per la politica deve essere spettacolare perché deve servire a rappresentarla.
Un’altra questione importante è la perdita di autorità degli architetti. Questo non significa rivendicare un potere assoluto sull’opera ma ciò che sempre di più vedo è che l’architetto è sottomesso ad altri soggetti che sono i veri protagonisti del controllo e del risultato finale dell’opera. Addirittura questi sviluppano l’idea originaria dell’architetto: quando l’edificio è concluso, non ha nulla a che vedere con quello immaginato. L’architetto è posto ai margini dell’esecuzione. Altra cosa è il concetto di specializzazione che significa la concentrazione di competenze in un lavoro di equipe. L’architetto dovrebbe procedere nel coordinare costante il progetto, mentre la realtà esaspera la parcellizzazione del lavoro che rappresenta la fine dell’architettura. L’architettura non è possibile dividerla in tecnica e in immagine, ingegneria e arte.

A questo proposito ci viene in mente una bella frase di Fernando Távora che lei cita nei suoi scritti. Dice: «Progettare è captare, al momento giusto, un’idea perturbatrice e vagante – e riportare la serenità».

Esattamente, ogni progetto ha a che fare con i conflitti: punti di vista diversi, competenze diverse, ecc.. Noi non possiamo però rifiutare questi conflitti, gli elementi perturbatori, che costituiscono la base del nostro lavoro. Nel procedere per risolverli si trova sempre qualcosa di concreto e di autentico. L’autenticità è per me la cosa più importante ed è indissolubile dal fare l’architettura. L’autenticità significa considerare tutto ciò che riguarda il progetto e ogni protagonista coinvolto nel suo processo: escludere qualcosa vuol dire produrre un inganno. La serenità, quindi, è una conquista che giunge dopo molte fatiche, non è per nulla immediata ed è connessa con l’autenticità dell’architettura.

Lei è molto legato all’Italia. Il nostro paese non è stato generoso come altri nell’affidarle incarichi. Pensiamo a Milano involgarita dalle architetture del nuovo stile internazionale e dove nulla si è fatto perché si realizzasse il suo progetto per la sistemazione di Corso Sempione, né dell’allestimento della Pietà Rondanini al Castello Sforzesco. Lei che conosce l’Europa cos’è che ci è accaduto?

Non solo a Milano non si è fatto nulla per eseguire i miei progetti. A Venezia, con un progetto vincitore di un concorso, sono trascorsi trent’anni prima di dare inizio al cantiere e ad oggi è stata eseguita solo la metà di ciò che doveva essere costruito. Queste cose, però, non accadono solo in Italia, ma nel vostro paese ci sono delle situazioni particolari. Ad esempio a Napoli dove sto seguendo il progetto della stazione della metropolitana di Piazza del Municipio insieme a Eduardo Souto de Moura, l’opera avanza con molta fatica perché ogni volta che si fa un buco troviamo reperti archeologici greci, romani, arabi, normanni, ecc., che vanno salvaguardati. Questo testimonia dell’attenzione con la quale in Italia si cerca di conservare le proprie radici con il passato, ma tutto è molto difficile e a Napoli non vi erano alternative all’esecuzione in sotterraneo della metropolitana. Sono state rinvenute due antiche imbarcazioni e un tempio greco e ogni volta ci si è trovati a discutere con la Soprintendenza come procedere con la costruzione.
A questi si aggiungono i problemi dei finanziamenti e altre questioni che, se da un lato mostrano i numerosi ostacoli che devono essere superati, dall’altro permettono all’opera di guadagnare in solidità. Il territorio italiano è in questo senso unico al mondo per ricchezza archeologica e artistica che per me rappresenta una base fantastica per l’architettura.
A Milano le cose sono andate diversamente. Ho con Roberto Cremascoli sviluppato con cura i progetti attraverso un serio confronto con i responsabili della pubblica amministrazione ma poi è calato inspiegabilmente il silenzio. Io penso che ciò che è accaduto abbia una qualche relazione con la crisi economica o con i cambiamenti politici. Non è di per sé una cosa nuova, ma qualcosa di particolare dell’Italia. Un po’ in tutto il sud dell’Europa ci troviamo nelle stesse condizioni: un passato ricco di testimonianze e le molteplici difficoltà a instaurare con esso un dialogo produttivo. Ho molta speranza per il vostro paese. In Portogallo, invece, l’opposizione è sottomessa e le politiche della troika europea s’impongono con forza chiedendoci di essere solo un buon alunno che rispetti le imposizioni delle direttive comunitarie. Dopo tre anni di sacrifici, però, tutti gli indici del paese sono peggiorati.

Nel congedarci da Siza, promettendogli di ricontrarlo a Lisbona, cerchiamo di immaginarci l’Europa rivolta a scommettere sul futuro del suo patrimonio storico e culturale al di fuori delleortodossie economiche dei trattati e dei vincoli economici. L’Europa che, insieme a Siza, sogniamo.
(con la collaborazione di Antonio Angelillo)