Dieci giorni fa la «forza tranquilla» di Hillary Clinton sembrava aver definitivamente prevalso contro l’isteria di Trump. Il candidato dell’esperienza sembrava avviato a una facile vittoria contro quello del dilettantismo. La Clinton aveva il sostegno di numerosi repubblicani per una politica estera tradizionale (leggi: aggressiva) contro il ritorno a un’improbabile isolazionismo da «Fortezza America». Insomma, era il momento della seria, credibile, eleggibile Hillary Clinton contro l’inaffidabile, razzista, xenofobo Donald Trump.

Dramma elisabettiano

E poi sono arrivate le email. Non conta il fondatissimo sospetto che le notizie diffuse dal direttore dell’Fbi siano state manipolate a danno di Hillary: la calunnia a pochi giorni dal voto ha trasformato l’ultima settimana di questo incredibile anno elettorale in un dramma elisabettiano.

 

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Hillary con Bill Clinton al termione della convention democratica di Filadelfia (LaPresse)

 

Ieri la prima pagina del New York Times aveva un’enorme foto di Hillary sorridente a fianco del titolo: «La disoccupazione al livello più basso dal 2008; salgono i salari, 161.000 nuovi posti di lavoro». Con notizie di questo tipo a 72 ore dall’apertura dei seggi (ma in molti stati si sta già votando) e con un presidente popolare la vittoria del candidato democratico avrebbe dovuto essere una passeggiata. E invece no. I sondaggi danno Clinton e Trump quasi in parità e addirittura si parla seriamente della possibilità che Hillary possa raccogliere più voti dei cittadini ma perda la presidenza a causa del barocco meccanismo del collegio elettorale, esattamente come accadde nel 2000 ad Al Gore.

Crisi di sistema

La conclusione da trarre è che non siamo di fronte a errori, beghe di corridoio o complotti per danneggiare la candidata democratica: siamo di fronte alla crisi complessiva di un sistema politico bipartitico.

L’establishment del partito democratico era stato più abile di quello dei repubblicani presentando alle primarie un candidato unico (Clinton) invece che una dozzina di personaggi mediocri, facile preda dello squalo venuto dal nulla (Trump). Ma il partito democratico non era – non è – più in salute di quello repubblicano, malgrado il carisma e l’abilità di Obama che domani sarà a Filadelfia assieme alla moglie Michelle per la chiusura della campagna elettorale, un sostegno di cui Hillary in queste ore ha disperatamente bisogno.

La Clinton è stata scelta perché rappresentava un po’ «l’usato sicuro», un candidato moderato e rassicurante contro il «socialista» Bernie Sanders. Quest’ultimo, però, offriva uno scopo al partito: rappresentare il 99% degli americani, mettere fine al dominio del denaro sulla politica; Hillary Clinton non può ovviamente darsi un programma del genere, qualunque cosa ci sia scritta nella piattaforma uscita dalla convention di Filadelfia.

Scelte disastrose

Hillary non è un candidato credibile per quanto riguarda la lotta contro la disuguaglianza: stava alla Casa Bianca con il marito Bill quando venivano attuate la deregulation bancaria, la creazione dei mutui subprime all’origine della crisi del 2008, le leggi che hanno portato in carcere tre milioni di americani: tutte scelte nel lungo periodo disastrose, tutte scelte avvenute fra il 1993 e il 2000. Gli americani non si fidano di lei, molti per ragioni sbagliate, altrettanti per ragioni assolutamente giuste.

È un sistema oligarchico quello che – non da oggi – governa gli Stati Uniti ed è un palazzinaro miliardario che ne ha beneficiato spudoratamente, un demagogo truffaldino quello che si fa paladino della rivolta: Hillary, nel ruolo di cauto riformatore del sistema (quindi di suo difensore) ha una posizione assai scomoda. Talmente scomoda che il sostegno della tradizionale coalizione democratica – bianchi con educazione universitaria, donne non sposate, ispanici, afroamericani – potrebbe non essere sufficiente.

Lo spettro di Nader

Ora, naturalmente, l’apparato del partito ricorre a una ricetta consolidata e agita lo spettro della sconfitta del 2000, quando la candidatura di Ralph Nader con i verdi non superò il 3% dei voti, un risultato più che sufficiente, in un sistema brutalmente bipartitico, per consegnare la Casa Bianca a George W. Bush e chiede ai sostenitori di Bernie Sanders di votare per lei.

 

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«The Donald» con Melanie Trump all’apertura della convention repubblicana (foto LaPresse)

 

Al solo guardare la faccia di Trump l’argomento farà certamente presa su molti giovani, ma non su tutti (i millennials sono i più scettici verso Hillary, con la sua reputazione di donna cinica e assetata di potere). E lo stesso accade tra gli afroamericani, che non andranno ai seggi con lo stesso entuasmo del 2008 e del 2012, quando avevano un «loro» candidato come portabandiera dei democratici.

Hillary rimane ancora favorita ma si porta dietro un pesante fardello. Anche nella migliore delle ipotesi, quella di una sua vittoria di misura, i democratici con ogni probabilità non ritroveranno la maggioranza in Congresso e questo renderebbe impossibile qualsiasi riforma significativa. La sua presidenza si aprirebbe sotto il segno di un sistema politico che non regge più.