Sul manifesto del 17 gennaio Gianfranco Capitta intervistava Luca Ronconi, scomparso sabato 21 febbraio, alla vigilia del debutto dello spettacolo Lehman Trilogy al Piccolo Teatro Grassi.

Da parecchi anni Luca Ronconi esplora come tema dei suoi spettacoli l’economia e la finanza, argomenti del tutto inusuali sui palcoscenici italiani e non solo. Lo fa usando testi esistenti, o anche commissionandoli a drammaturghi e scienziati, o anche direttamente a degli economisti importanti, come Giorgio Ruffolo. E la finanza, dalle sue origini avventurose in epoca moderna, fino al crack terrificante delle ultime stagioni (con funeste conseguenze planetarie) della più importante banca d’affari di Wall Street, è la sostanza del suo nuovo spettacolo, che debutterà al Piccolo Teatro Grassi di Via Rovello il prossimo 29: si tratta di Lehman Trilogy, su testo di Stefano Massini (Einaudi, 332 pp. 17,50 euro). Protagonista un cast «stellare» per le nostre scene, che comprende tra gli altri Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni e Paolo Pierobon.

Le prove, di circa tre mesi, sono impegnative e assorbono completamente attori e regista. Ma incontrando Luca Ronconi in una breve pausa, non si può non chiedergli da dove venga questa sua particolare curiosità per la finanza, le sue leggi e le sue teorie, i suoi fasti e i suoi abissi.

«Mi interessa perché non ne so niente. Ho voluto occuparmene in teatro, a partire dal testo che ho chiesto a John Barrow per Infinities, e poi con un altro a Giorgio Ruffolo che era La Bellezza del diavolo; ho messo in scena Inventato di sana pianta di Hermann Broch, e ora arrivo alla storia dei Lehman. Sono tutte cose che appartengono a un mondo che io non conosco, e del resto io non ho mai amato mettere in scena ciò di cui sono totalmente sicuro. Di quelli che possono essere i rischi di un fenomeno, mi interessa esattamente il fenomeno, e non «dire la mia».Senza nessuna pretesa o ambizione di determinarne gli esiti, anche se questi saranno lo sfascio o il declino: li lascio pensare a qualcun altro. A me compete un atteggiamento da ’spettatore’ (perché c’è un elemento di possibilità), e nello stesso tempo ’critico’ perché sono ben consapevole della prospettiva da cui guardo. Ma senza la pretesa di dare un giudizio».

Eppure nell’introduzione che lei ha scritto al testo di Massini, ribadisce la necessità che «il capitalismo deve trasformarsi».

Questa osservazione la faccio non rispetto al testo che metto in scena, ma rispetto alla realtà. Mi sarebbe piaciuto essere, questo sì, tra i testimoni che hanno avuto la ventura di vedere le prime crepe aprirsi nel sistema Lehman: non quando sono diventate voragini, ma quando erano ancora crepe, segnali. Io qui non dico niente di personale, così come quando ho fatto Infinities, non dicevo «la mia», non dicevo nulla di personale, ma riportavo in scena affermazioni come possono esserlo quelle di un professore inglese a degli studenti; ho messo in scena delle «lezioni» sentendomi anche io come uno studente, e non come un professore.

E nel caso del fallimento della finanza mondiale, di cui Lehman Brothers è stato un archetipo, come si sente?

Di natura non sarei pessimista, ma penso che prima o poi le cose si devono sfasciare, si deve fare piazza pulita per poter ricominciare, e non cercare a tutti i costi le mediazioni. Allora divento assolutamente estremista, a cominciare dal mio lavoro artistico. E talvolta mi è toccato anche fingere… Per qualche spettacolo tra quelli realizzati qui al Piccolo, c’è chi si è arrabbiato perché lo trovava troppo ’estremista’; ma un teatro di questa portata si deve permettere degli azzardi altrimenti perde la sua ragion d’essere. Tornando al caso Lehman, per parlare nello specifico, la commedia è estremamente ambiziosa: sia chi l’ha scritta che chi la porta in scena, non sono stati testimoni diretti di quegli eventi. Eppure nella dimensione, nella durata e nel suo stesso contenuto, sono tenuti a sostenerne fino in fondo la pretesa o l’ambizione. Come quando, costruendo un organismo, questo cresce fino a nascondere le giunture o le membra che pure ne sono la parte essenziale.

Un secondo problema è che noi siamo stati testimoni di quell’evento come un giapponese della passione di Cristo. Abbiamo seguito quelle vicende ma non apparteniamo a quella cultura. Uno dei grandi pregi della commedia è il modo in cui documenta il progressivo distacco dalla cultura d’origine: la Germania sfuma, e perfino l’origine ebraica, per la rapida e progressiva «americanizzazione». Noi la facciamo tutta all’italiana: le stesse preghiere ebraiche hanno accento italiano. Non siamo strafottenti, ma sufficientemente cinici sì. Nonostante la mole, è un testo a cui lavoro con molta passione, e per fortuna c’è un cast fantastico.

Assistendo alla «Lehman Trilogy», lo spettatore italiano sarà autorizzato a pensare ad altri crack clamorosi che avvengono da noi, spesso con la copertura della politica, o grazie alla mancanza di controllo. Oggi l’Italia è percorsa da nord a sud da fallimenti e corruzioni clamorosi, dall’Expo al Mose all’Ilva, passando per la cupola di Mafia Capitale.

Quella dei Lehman, con tutto lo scandalo dei subprimes, è una storia di presunzione e ambizione che voleva farsi planetaria, e che ha fallito. Ricordiamo che un Lehman per altro è stato il maggior collaboratore di Roosevelt presidente, lasciò l’azienda familiare, si diede alla politica, e mise pure le tasse ai ricchi. Il loro crollo è stata non una causa, ma una conseguenza dell’economia globalizzata, cui avevano risposto senza adeguate radici culturali. Quelle nostre di corruzione mi sembrano le storie di sempre, che praticava a suo tempo la dc. Ora si sono allargate a tutti gli schieramenti, e dovremmo piuttosto che sull’entità della corruzione, interrogarci sul perché. Alla mia età non posso stupirmi che avvenga, anche se ha assunto ora proporzioni intollerabili. A chiunque chiedessi se davvero non lo immaginava, lo sfido a rispondermi di no.

E che ora vengano fuori, è perché qualcuno ha deciso di farlo. Sono convinto che stiamo arrivando al punto più basso, allo sfacelo. E non solo in economia, ma anche nella cultura, e nel nostro piccolo campo di lavoro, il teatro. E la discesa mi sembra sempre più rapida; è inarrestabile ma al tempo stesso vicina al suo termine. Magari da un’altra parte e in altri modi, tutto può ricominciare, spero.