Le macerie di dieci moschee sciite nelle città di Mosul e Tal Afar sono l’immagine di un paese in pezzi. I bulldozer che fanno crollare i muri dei luoghi sacri sciiti e l’esplosivo che sbriciola le pareti, il simbolo del settarismo che avvelena definitivamente l’Iraq. Come il primo discorso del “nuovo califfo” Al-Baghdadi venerdì, durante la preghiera di mezzogiorno nella Grande Moschea di Mosul, che ha mostrato il potere che si è conquistato, rivolgendosi alla folla come legittimo successore del profeta e promettendo la vittoria sugli infedeli. Questo è oggi l’Iraq, melting pot religioso, come tanti altri in Medio Oriente, fedi e orientamenti che in passato avevano saputo convivere e oggi sono la giustificazione alla distruzione delle basi laiche di Baghdad.

L’avanzata apparentemente inarrestabile dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante è la conseguenza finale, non la causa dello smembramento del paese. A monte sta la divisiva strategia Usa in otto anni di occupazione militare, la pericolosa influenza del Golfo e di quei petroldollari che hanno foraggiato i gruppi islamisti attivi in territorio siriano e volti a spezzare l’asse sciita Siria-Iran-Hezbollah, il corrotto nepotismo che impera dalla salita al potere del premier sciita Maliki, nel 2006.

Oggi il processo che stravolge i fragili equilibri interni del Medio Oriente sta – ancora una volta – nelle sue più preziose ricchezze. Dall’inizio di giugno, quando l’Isil ha occupato Mosul e la prima provincia irachena, Ninawa, ad oggi il controllo del greggio è mezzo e fine. La determinazione del potere passa per il possesso strategico dei pozzi di petrolio.

Lo sanno bene i curdi, lo sanno bene i miliziani sunniti. Nell’estremo nord dell’Iraq, la regione autonoma del Kurdistan si è auto attribuita l’ufficiosa indipendenza che cerca da decenni, occupando i giacimenti nella ricca provincia di Kirkuk e vendendo all’estero il greggio, in Turchia e Israele. Nelle province in mano ai jihadisti – Anbar, Ninawa, Diyala e Salah-a-din – sono i miliziani a controllare parte di Banjij, la principale raffineria del paese (ancora teatro di scontri con le forze militari irachene).

La dichiarazione della nascita del califfato islamico tra Siria e Iraq della scorsa settimana, da parte del leader Al-Baghdadi, si prefigura come uno Stato fondato sì sulla Shari’a, ma anche sull’olio nero. Un lungo corridoio che dalle comunità orientali dell’Iraq arriva a quelle occidentali siriane: venerdì l’Isil ha assunto il controllo del giacimento di al-Tanak, nella provincia siriana di Deir al-Zour, al confine con l’Iraq, dopo aver occupato il giorno precedente il più grande Al-Omar, sempre nel deserto di Sheiytat. Entrambi i pozzi sono stati strappati al controllo di un altro gruppo ribelle e oggi rivale, il Fronte al-Nusra.

Ora l’Isil punta al ricco giacimento di Al-Ward mentre alla finestra resta il burattinaio di Riyadh che approfitterà attivamente della debolezza irachena per liberarsi della forte concorrenza di Baghdad nel settore energetico e coprirne il gap sul mercato internazionale.

Il califfato, contro il quale si sono scagliati numerosi gruppi armati sunniti e organizzazioni religiose perché considerato una blasfemia, è solo un prodotto della mente del figlio ribelle di Al Qaeda, Al-Baghdadi? La realtà dei fatti dice di più: lo Stato Islamico ha il controllo concreto di quel lungo corridoio ribattezzato “Stato Islamico”, ne gestisce le ricchezze e i confini ufficiali, facendo passare con estrema disinvoltura armi e miliziani, senza che né Damasco né Baghdad possano arginare l’avanzata.

Forte del denaro che arriverebbe copioso dalle casse dell’Arabia saudita, potrebbe portare alla divisione definitiva dell’Iraq in tre parti. L’offensiva jihadista non pare arretrare nonostante le bombe sganciate dall’aviazione del presidente siriano Assad lungo il confine e le piccole vittorie segnate da un esercito iracheno allo sbando (giovedì il villaggio natale di Saddam Hussein, Awja, è tornato sotto il controllo di Baghdad, mentre Tikrit – simbolo del potere dell’ex rais – resta occupata dagli islamisti).

A dare man forte è la spaccatura politica e lo stallo in cui è invischiato il nuovo parlamento. Sul terreno numerose comunità sunnite, nel corridoio che da Baghdad arriva a Awja, continuano a manifestare la loro insofferenza verso il governo sciita e approfittano della debacle dell’esercito per portare avanti azioni di guerriglia, mentre le milizie baathiste proseguono nel fornire fondamentale sostegno al nuovo alleato, l’Isil, nell’intenzione di liberarsene una volta strappata Baghdad agli sciiti e riconquistare il potere.

Sul piano politico, venerdì il premier Maliki ha rifiutato per l’ennesima volta i numerosi inviti – giunti sia dalla comunità internazionale che dalla classe politica irachena – a farsi da parte e permettere la creazione di un esecutivo di unità nazionale: «Non mi arrenderò, non rinuncerò alla candidatura a primo ministro – ha detto alla tv di Stato – Resterò un soldato che difende gli interessi dell’Iraq e del suo popolo».

Una presa di posizione nota, ma che complica il già difficile compito del nuovo parlamento, eletto a fine aprile e chiamato a eleggere il suo presidente, responsabile della nomina del primo ministro. Martedì scorso la prima sessione parlamentare si è conclusa con un nulla di fatto: curdi e sunniti hanno lasciato l’aula, facendo venir meno il numero legale e impedendo il voto. A monte l’ostilità verso Maliki di gran parte della compagine sciita. In particolare l’avversario di sempre, Moqdata al-Sadr.