Ha creato un vespaio di polemiche l’introduzione dell’economia illegale composta da droga, prostituzione, alcol e contrabbando nel calcolo del Prodotto interno lordo (Pil). Il governo ha posticipato la pubblicazione della nota di aggiornamento del Def al primo ottobre in attesa di contabilizzare a settembre un’incremento del Pil di circa il 2% (32 miliardi di euro).

«Nel Pil è già compreso il calcolo dell’economia sommersa, cioè dei proventi dalle attività legali che si svolgono in nero – afferma Tommaso Rondinella, ricercatore e collaboratore della Campagna «Sbilanciamoci» – L’idea di includere l’economia illegale risale ad una decisione europea del 1995 ed esclude alcune parti che non derivano da uno scambio di beni e servizi come l’estorsione, la corruzione e l’usura. Verrà calcolato anche il valore dei sistemi d’arma. Da spese intermedie della difesa verranno considerati come investimenti e andranno a sommarsi al Pil. Lo stesso accadrà per gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo».

Il traffico della droga, lo sfruttamento della prostituzione o il contrabbando non sono il prodotto di reati?

Il problema esiste e nasce quando noi usiamo il Pil come misura del benessere. Invece il Pil misura la quantità di beni e servizi scambiati in Italia durante l’anno. Dal punto di vista economico che io venda arance o cocaina non c’è differenza. È giusto porre un’obiezione dal punto di vista legale, ma questo diventa un terreno scivoloso se si paragona la nostra situazione a quella olandese dove le droghe leggere sono legali oppure alla Germania dove la prostituzione è un’attività riconosciuta in quanto produce reddito e per questo viene calcolata nel Pil. L’altro problema è quello etico: si dice che queste attività non dovrebbero essere contemplate dal Pil. Ma il Pil contiene già l’economia sommersa come il caporalato nei campi di pomodoro pugliesi, un’attività sommersa fondata sullo sfruttamento della manodopera in assenza di contratti e diritti. In più il Pil cresce grazie alle attività inquinanti che producono un danno per la società. Il nostro problema non è chiedersi se sia giusto includere le attività illegali nel Pil, ma se sia giusto reputare il Pil un indicatore di benessere del nostro paese e se sia giusto che la politica si ponga l’obiettivo di massimizzare la crescita.

La politica potrebbe essere incentivata a non contrastare questi reati per aumentare la crescita che resterà a lungo «anemica»?

In passato attività come il danno ambientale non sono state contrastate proprio per sostenere il Pil. La promozione della crescita economica a tutti i costi ha portato a distruggere interi ecosistemi. Ma quando andremo a misurare le attività illegali, i cittadini saranno in grado di controllare la politica in base alla sua capacità di contrastare il traffico di droga. Sarà difficile per un politico vantarsi di un aumento del Pil ottenuto grazie all’economia illegale.

Questo significa che nella misurazione della ricchezza non conta più lo status giuridico o professionale di chi produce ma solo il valore della ricchezza prodotta?

È proprio questo che si vuole misurare e credo che sia giusto farlo nella sua completezza, poi restano i problemi giuridici ed etici. Il traffico di droga o lo sfruttamento della prostituzione non smetteranno di esistere solo perché sono stati inseriti nel Pil. Si discuterà di eventuali legalizzazioni affinché queste attività siano controllate e producano gettito per l’erario. Ma parliamo di problemi culturali complessi molto più rilevanti della semplice componente economica.

Da tempo si discute di indicatori alternativi. Quali sono i principali e come funzionano?

L’idea per cui il Pil non sia sufficiente per misurare il benessere e lo sviluppo è nota da decenni. Esistono moltissimi indicatori come l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, il Benessere equo sostenibile (Bes) adottato dall’Istat e dal Cnel o l’Indice di Qualità dello Sviluppo Regionale (Quars) di Sbilanciamoci. Sono costituiti da una serie di indicatori che misurano la salute, l’istruzione, l’ambiente, le relazioni sociali, lo sviluppo di un territorio e cercano di guardare alla complessità di un fenomeno come il benessere, anziché ridurlo ad un problema economico. Queste misure dovrebbero diventare il fine ultimo della politica invece della massimizzazione della produzione.

Era l’obiettivo della commissione Stiglitz voluta nel 2008 da Sarkozy. Le sue raccomandazioni verranno mai applicate?

Nella statistica lo sono state e da parte di Eurostat le si vuole adottare. Chi si occupa di politiche ambientali o di politiche sociali conosce questi temi. Chi si occupa di sostenibilità del debito come i ministeri dell’economia in Europa probabilmente meno. Gran parte delle politiche neoliberiste hanno considerato solo l’aumento del Pil e non l’aumento del benessere dei cittadini.