In un video di due minuti e mezzo, girato nel suo Trump National Gold Club Bedminister, da dove il prossimo presidente Usa sta molto telegenicamente intervistando i potenziali candidati al suo gabinetto, lunedì sera, Donald Trump ha aggiornato il paese sullo stato della sua transizione. Lo ha fatto postando il suo messaggio direttamente su YouTube, scavalcando le istituzioni mediatiche, nello stile «indiscutibile», sottovuoto, dell’infomercial, spesso usato durante la sua campagna elettorale, e che ricorda molto il formato di comunicazione di un despota.

Poche ore prima di rilasciare il suo messaggio, Trump aveva intrattenuto un meeting «off the record» con i direttori e i conduttori delle maggiori testate televisive che, a sentire il murdochiano New York Post (opportunamente informato del backstage), avrebbe coperto d’infamia, chiamando i presenti bugiardi, disonesti e di parte, per la delizia dei siti della alt-right.«Trump si mangia la stampa», ha esultato Breibart News, «Trump fa a pezzi l’elite mediatica», gli ha fatto eco il Drudge Report.

A conferma del suo turbolento rapporto con gli organi d’informazione istituzionali, alle 6 e 16 di martedì mattina, Trump annunciava via Twitter che il previsto incontro con la direzione del «fallimentare» New York Times, cui doveva seguire un q&a con i giornalisti della redazione, non si sarebbe effettuato; per poi cambiare idea 15 minuti dopo («anche se continuano a dire bugie sul mio conto»). Il problema? Il presidente eletto aveva chiesto di cancellare il q&a, e di tenere tutto off the record. Il Times gli ha risposto no.

Non solo, nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha sedotto (a forza di ratings), manipolato e regolarmente insultato stampa e Tv, il suo esibito disprezzo per la categoria è parte del pacchetto con cui ha conquistato molti dei voti. A seguire le scaramucce di sopra, unite a quella della settimana scorsa con il cast del musical Hamilton e a quella in corso con Saturday Night Live, un’editoriale a firma Gersh Kuntzman, apparso sul New York Daily News di ieri anticipava: «Trump sarà il presidente più anti-media dai tempi di Richard Nixon».

Il fallimento colossale, da parte di stampa e televisioni Usa, non solo di prevedere la vittoria di Donald Trump, ma anche di gestire adeguatamente la sua ascesa politica (oltre che di documentare l’America che l’ha resa possibile) sono una delle grandi storie del 2016. E’ un fallimento che, dall’8 novembre a oggi, ha generato scuse pubbliche (per esempio Times e Washington Post) e numerosi esami di coscienza.

L’assunto generale – sponsorizzato dallo stesso Trump – è che l’establishment mediatico sia ormai talmente in combutta con «i poteri» della politica, della cultura e dell’economia da aver perso di vista quello che succede veramente. Certo, questa «teoria della bolla» contiene delle verità ma, tra le macerie del disastro, emergono anche le responsabilità di nuovi modi della comunicazione del cui potere distruttivo nessuno si era reso pienamente conto. E sul cui appoggio Trump sembra deciso a contare anche per il futuro.

È il caso delle fake news, le false notizie, generate -persino oltre i circuiti complottistici della alt right- da organizzazioni mediatiche inventate e/o semplici individui, spesso direttamente create nel contesto dei social, occasionalmente per motivi che non hanno nulla a vedere con la politica. Secondo un’analisi effettuata da Buzzfeed, nei tre mesi che hanno preceduto le elezioni, storie false, generate online e diffuse via Facebook, hanno infatti raggiunto piu’ utenti, sono state condivise e commentate, del coverage prodotto dagli organi d’informazione tradizionali.

Sempre su Buzzfeed, incredibile il reportage su un gruppo di teen ager della Macedonia che non avevano nessun interesse per la politica Usa, ma si sono temporaneamente arricchiti grazie ai profitti di pagine Facebook pro-Trump (molto più trafficate di quelle pro-Clinton o pro-Sanders), da dove diffondevano notizie come l’endorsement di papa Francesco al miliardariio newyorkese. «Credo che Donald Trump sia alla casa bianca per merito mio», ha detto invece al Washington Post Paul Horner, un trentottenne che si arricchisce a forza di fake news da anni (10.000/20.000 dollari al mese). E che non teneva nemmeno per Trump. Tra le sue «storie»?

Quella secondo cui un manifestante anti- Trump rivelava di essere stato pagato 3.500 dollari dalla campagna Clinton. La «notizia» e’ stata immediatamente ritwittata dal manager della campagna Trump e da uno dei figli del miliardario a tutti i followers.
È una realtà da cui lo stesso Obama ha detto di essere «stato colto di sorpresa» e su cui si è già pronunciato, per esempio sul New Yorker e durante il suo recente viaggio a Berlino: «Siamo in un’era in cui un’enorme quantità di disinformazione viene intenzionalmente presentata in modo da sembrare autentica. Se tutto sembra uguale, su Facebook o alla Tv, non si sa cosa proteggere.

Se non siamo seri sui fatti, su quello che è vero e quello che non lo è, particolarmente in un’era in cui tante persone consumano le news attraverso i social media, in soundbite che appaiono sui cellulari, se non possiamo discriminare tra cose serie e propaganda, è un problema serio».

Dopo che, in un primo momento, Zuckerberg aveva rifiutato l’ipotesi che i social media avessero avuto una responsabilità determinante nella diffusione di false notizie (su 20, solo tre favorivano Clinton, il resto era pro Trump) e quindi sui risultati delle elezioni 2016, sia Facebook che Google hanno annunciato che stanno lavorando per impedire se non la circolazione di fake news sulle loro piattaforme, almeno i loro tornaconti finanziari.