Il 22 aprile del 1982, Jomhouri-e Eslami, il giornale fondato dal Partito islamico repubblicano, riporta una dichiarazione di un funzionario della Casa dei lavoratori, Khane-ye kargar. Dice: «Il Primo maggio è una distorsione di ciò che i marxisti hanno fatto per la Seconda Internazionale di Parigi».

Poi aggiunge: «Sulla base delle nostre ricerche, abbiamo scoperto che la mentalità dei protagonisti del Primo maggio era religiosa».

Assegnare nuovi significanti al pre-esistente, trasformare, creare discontinuità con il passato: segue questa linea logica anche l’inserimento del primo maggio, giornata internazionale dei lavoratori, nel calendario iraniano.

La forza simbolica di quella ricorrenza assume connotati islamici a tutti gli effetti. Elementi nazionali e internazionali si fondono, così, in un unico nuovo paradigma: il particolarismo iraniano si unisce all’universalismo islamico. I khomeinisti ridefiniscono così un emblema storico della sinistra vicina ai lavoratori. Per questo molti intellettuali occidentali inizialmente si entusiasmano a distanza e confondono la portata del nuovo «regime di verità».

In realtà, tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata degli operai iraniani viene trascinata nell’orbita della religione, ancorata ad altre due caratteristiche fondamentali della narrazione della nuova Repubblica: la rivoluzione e il populismo. Se è vero che Khomeini non usava praticamente mai la parola «classe» nei suoi discorsi, è altrettanto vero che incitava all’antagonismo di classe.

Il primo maggio 1982 diceva ai lavoratori: «Un giorno della vostra vita vale tutte le vite dei capitalisti. Le ore di lavoro sono i momenti [che servono a, ndr] onorare Dio e pagare il debito ai martiri e agli oppressi della società».

Scomporre il frame della lotta di classe era funzionale alla distruzione di un’altra possibile retorica vicina ai lavoratori. È chiarissimo in questo senso il messaggio di Khamenei – tra i fondatori della Repubblica islamica – in un discorso del Primo maggio 1981: «Lavoro e lavoratore hanno un valore divino, non soltanto materiale».
Per la giornata dei lavoratori del 2016, dopo nove anni di sanzioni e un’economia che stenta a ripartire, la retorica è simile: «Serve un’economia di resistenza (…), è vietato importare» ciò che già l’Iran produce, «la produzione interna è un affare sacro da considerare come un dovere» contro il «nemico imperialista Usa» che allontana gli investimenti esteri.