In questi giorni si parlerà moltissimo dell’opera di Umberto Eco, dei sette romanzi e degli innumerevoli saggi, delle Bustine di Minerva, della Semiotica, degli studi sul Medioevo, delle analisi critiche su media e società, del gusto per l’enigmistica e per i giochi di parole, dell’umorismo, dell’erudizione, delle istruzioni su come scrivere una tesi di laurea e su come viaggiare con un salmone, e in generale della sua travolgente energia intellettuale. Io invece vorrei parlare di Eco come professore. Non solo perché è stato il mio professore – così l’ho conosciuto e così ho continuato a considerarlo anche quando siamo diventati amici – ma soprattutto perché quel ruolo lo definisce meglio di qualsiasi altro.

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Professore in Italia è una parola screditata: arroganti, privilegiati, pedanti, fannulloni, astrusi, fumosi e vanesi… Eco era esattamente l’opposto. Professore per vocazione, non saltava una lezione, non arrivava in ritardo, non delegava i compiti meno gratificanti ai collaboratori più giovani, non fingeva di leggere le tesi: le annotava e le riempiva di orecchie per trovare rapidamente il segno, e poi ne discuteva come si discute tra colleghi, senza intimidire gli studenti con il suo schiacciante vantaggio culturale, se non attraverso battute che sondavano amabilmente il temperamento degli interlocutori.

Le gerarchie non lo interessavano perché ostacolavano il libero scambio di idee, e che altro si deve fare all’università se non confrontare interpretazioni intelligenti e informate per vedere quale la spunta sulle altre? Preparava i corsi con l’entusiasmo e il puntiglio di un principiante, ma poi in aula gli appunti prendevano vita, e chi lo ascoltava rimaneva rapito: non solo dalla sua sapienza, che da sola avrebbe potuto ottundere il senso critico degli ascoltatori inesperti, ma dal rigore dei suoi ragionamenti, corredati di aneddoti curiosi e di esempi esposti con la massima chiarezza, così da incoraggiare contro-esempi e tentativi di confutazione. In ciò sta l’essenza del metodo scientifico, di cui Eco era un campione.

Un’istancabile sfida

Ma Eco era professore anche quando faceva altre cose. È stato detto che i suoi romanzi sono didascalici, saggi confezionati in forma narrativa. In parte è vero, come è vero il contrario: i suoi saggi hanno una struttura marcatamente narrativa. Del resto si sa che le due attività procedevano in parallelo: Il nome della rosa riprendeva gli studi su Peirce e l’abduzione, Il Pendolo di Foucault quelli sui limiti dell’interpretazione, L’isola del giorno prima andava di pari passo con la ricerca sulle lingue perfette, e così via, in un continuo andirivieni tra narrazione e teoria che costituisce il proprio del lavoro di Eco (del quale di qui in poi parlerò al presente: l’autore non c’è più, ma i libri per fortuna rimangono). L’unità della sua opera è il prodotto di una mente protesa a raggiungere altre menti, di una tensione permanente, di una continua sfida alla pigrizia. Per Eco nessuno sforzo creativo vale la pena di essere esibito in pubblico se non contribuisce a rendere più intelligenti i destinatari, che si tratti di un gioco, di un racconto o di un trattato di semiotica generale. Combattere la stupidità in tutte le sue forme – così come elencate in un celebre passo del Pendolo di Foucault – è il suo obiettivo, e non a caso ha dedicato moltissime pagine alle aberrazioni logiche di cui è capace la mente umana. Obiettivo da professore? Sì, perché conoscere e capire non è noioso, è divertente, come diceva il suo amato Aristotele; è il non capire e il non conoscere semmai a essere noioso.

E poi Eco è tutto il contrario dello snob. Non c’è oggetto (così come non c’era studente, per quanto timido e impacciato) che per lui non sia degno della massima attenzione. Sotto il suo sguardo analitico finiscono i più diversi fenomeni della cultura di massa, indagati con lo stesso acume che applica all’estetica medioevale o alle poetiche di Joyce. Dalla paraletteratura alla pubblicità, dal design industriale al giornalismo, dal tifo calcistico ai fumetti, dal nonsense agli slogan politici, in tanti anni di militanza semiotica Eco ha educato l’Italia (e non solo l’Italia) a ragionare su tutti gli aspetti della sua cultura, nella convinzione che anche in un libretto di istruzioni, in una fotografia o in una frase fatta si annidino perversioni di senso da portare alla luce. Logiche sbilenche di cui farsi beffa sempre in nome della lotta contro la stupidità, specie quando questa venga messa al servizio dei prepotenti.

Sentenze virali

Anche il suo umorismo – irresistibile, contagioso: Eco occupa di diritto un capitolo nella storia dell’umorismo – è da professore. Non il professore sarcastico che si accanisce contro un interlocutore impotente, ma quello arguto che lo rende complice di un gioco imprevedibile.

Non per niente alcuni dei suoi articoli più divertenti (per esempio le 40 regole per parlare bene l’italiano) sono virali sui profili Facebook degli odierni sedicenni, esilarati da sentenze come «Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata», «Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia» e, not least, «Solo gli stronzi usano parole volgari».

La sfida è insegnare divertendo, creare complicità, indurre chi ascolta a capovolgere i luoghi comuni e a stanarne la presenza in ogni affermazione roboante, manipolazione subdola e dogmatismo idiota.

La stupidità per Eco è la morte. «L’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni», scrive in un memorabile articolo del 1997. È penosissimo accettare l’inevitabilità della propria dipartita se si pensa che la vita sia piena di delizie e che il mondo sia popolato da persone di valore. Ma se si prende atto della meschinità, dell’insulsaggine e della stoltezza di chi ci sta intorno, allora si può morire senza eccessivi rimpianti. L’importante è non giungere a questa conclusione troppo presto (altrimenti non vale più la pena vivere), ma arrivarci per gradi, attraverso una serie di disillusioni progressive. «Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto per l’incontro con la morte».

Il 19 febbraio 2016 Umberto Eco ha concluso la sua personale lotta contro la stupidità universale. Oggi tocca a noi continuare a vivere.