Gli americani vanno in Europa per «americanizzarsi» («to be Americanized»). Così scriveva Ralph Waldo Emerson nel 1860 in tempi che si avviavano verso grandi mutamenti all’interno della vita del suo paese. Il suo apparente paradosso conserverà una dose di verità fino ad almeno i primi decenni del Novecento, quando anche agli espatriati del Modernismo il confronto interculturale con l’Europa servirà come ‘spettacolo’ in cui specchiarsi e scrivere dell’America con maggiore consapevolezza delle sue distinzioni. A due secoli dalla fondazione puritana, nata da profonde dissidenze con l’altra sponda dell’Atlantico, e a pochi decenni dalla dichiarazione della dottrina panamericana del presidente Monroe, Emerson veniva a patti con l’idea di ‘Eccezionalismo’ statunitense: l’Europa resta «patria mentale» (ancora in The Conduct of Life), su cui s’è costituito l’individuo nuovo, lì sono le origini, da lì provengono le matrici che diedero la base alle istituzioni della nuova nazione. Eppure, nonostante i tempi mutati rispetto ai rigidi inizi e ai più illuminati esiti postrivoluzionari, e soprattutto con una guerra di secessione alle porte, restava ancora da definire, o da chiarire, l’identità di quell’individuo che si metteva in viaggio verso Est (il passato) e non verso Ovest (il futuro), così come restavano da superare, a dispetto dell’impareggiabile ottimismo di Emerson, numerosi e non negoziabili pregiudizi verso le terre della loro meta.
Alcuni avanguardisti postcoloniali (Washington Irving e James F. Cooper), freschi di orgoglio di indipendenza, avevano già pagato l’omaggio al vecchio continente nei primi anni del secolo, magari con un sogghigno ironico verso l’ex madrepatria (Irving), una riprovazione degli anti-repubblicanismi (Cooper), e sguardi non di rado sospettosi nei confronti della nutrice delle nazioni, quella Roma, cuore del cattolicesimo ma già laboratorio per aspiranti pittori e scultori stranieri, che il gioviale Irving non esitava a definire ambiguamente «Mistress of the World». In realtà, saranno in pochi a possedere la capacità, rara in un americano in viaggio in Europa, di giudicare con lucidità e distacco le realtà incontrate. Eppure, nonostante le profonde riserve (politiche e religiose), nella prima metà del secolo per gli americani che si risvegliavano all’arte (pittori e scultori), Roma, meta suprema del vecchio Grand Tour, rappresentò, come scrisse Van Wyck Brooks, il «sogno d’Arcadia», l’Arcadia del sapere e del fare artistico, un fare artistico da essi trasformato in una rappresentazione della propria americanità attraverso il filtro classico. A Roma, e in seguito a Firenze, fondarono una loro colonia che, intorno a Piazza di Spagna, partecipava di un vivace cosmopolitismo europeo e di un colloquio con gli amici in visita dagli Stati Uniti. Il transculturalismo di quel momento storico, a Roma, fu, a considerarlo oggi, di grande servizio, se non alla Roma papalina e risorgimentale, di certo alla crescita degli Stati Uniti.

Terminato il suo mandato quinquennale di Console a Liverpool, ottenuto per meriti letterari dall’amico Presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce, nel gennaio del 1858 Nathaniel Hawthorne attraversa la Manica con la famiglia alla volta di Parigi e quindi dell’Italia. A Parigi si ferma meno di dieci giorni. Una città dall’architettura grandiosa, grazie al nuovo imperatore, egli osserva nei suoi Taccuini (il Diario), ricca di tesori d’arte, propri e acquisiti, di chiese dalle facciate istoriate, ma in fondo una città sterile: «Nulla veramente prospera qui, uomo e natura hanno solo una vita artificiale». E quindi, senza altre soste, si rimette sulla strada di Marsiglia e l’imbarco sul Mediterraneo. Venti ore in calesse da Civitavecchia a Roma. L’ingresso da Porta del Popolo avvenne in una fredda mezzanotte di gennaio che privava l’ombroso autore della Lettera scarlatta dell’incanto – solitamente suscitato nel viaggiatore proveniente dal Nord – della vista della piazza monumentale con la fuga del tridente Corso-Ripetta-Babuino. Hawthorne si fermerà a Roma fino al maggio di quell’anno, per tornarvi, dopo un tour in Umbria e Toscana, nell’ottobre, e ripartire definitivamente nel maggio del 1859. Il rientro definitivo in patria, da Londra, avverrà nel maggio del 1860.

Le sue prime impressioni sono sconsolanti: «non sarò mai in grado di esprimere la mia avversione per questo posto, la condizione miserabile in cui mi sono trovato; e presto, immagino, un clima più caldo forse mi riconcilierà con Roma contro la mia volontà. Freddi vicoli angusti, tra case alte, brutte, incalcinate, pane rancido, pavimentazioni scomode; mendicanti, borsaioli, templi antichi e monumenti in frantumi, e fra le loro estensioni penzolante biancheria stesa ad asciugarsi; soldati francesi, monaci e preti di ogni grado; un popolino trasandato, sigari cattivi». Come i panni stesi nel Foro, il presente, per di più snobisticamente affumicato da quei sigari cattivi, sembra quasi collegarsi senza soluzione di continuità con l’idea di un passato che Hawthorne – nonostante il suo interesse per Ovidio e i miti classici – non intende riscattare da una vecchia rimozione. Il tempo di Roma gli appare come squinternato in un’attualità compressa, metastorica: «È strano come le nostre idee di quello che è l’antichità si alterino qui a Roma – scrive ancora nel Diario –, il Cinquecento, il secolo in cui molte delle chiese e delle fontane sono state costruite o riadattate, sembra a nostra portata come l’oggi; i mille anni, o i giorni dell’impero, sono solo una data della modernità, e ci interessano poco; e di epoche più recenti nulla c’è di veramente venerabile se non il regno di Costantino; e gli obelischi egiziani che si ergono in diverse piazze svergognano le antichità di Augusto e della Repubblica». Sono annotazioni buttate giù di primo acchito, magari dopo una giornata di faticosa esplorazione. Anche attraverso la scrittura più distanziante del Diario, Hawthorne prova a misurarsi con una realtà che lo sovrasta sia per imponenza e complessità sia per una sua personale predisposizione culturale che risale al lascito della Riforma e del Puritanesimo. È con questo retaggio, più che con Roma, che Roma lo chiamerà a confrontarsi.
In quei primi mesi – con la moglie Sophia, e i figli Una e Rose (che si convertirà al cattolicesimo), e Julian, suo futuro biografo – aveva setacciato la città ripetutamente, con e senza la standard guida Murray, percorrendone gli odiosi vicoli, scoprendo chiese appartate, studiando nella loro oscurità dipinti polverosi, anonimi e magari di scarso valore artistico, visitando le gallerie d’arte (Doria Pamphilj, Corsini, Sciarra, Borghese, Colonna, Barberini), esplorando la città dall’alto dei suoi pinnacoli (il Campidoglio, il Pincio, la cupola di San Pietro, il Gianicolo), immergendosi nella cavernosità di catacombe e cripte funerarie (la sudicia chiesa dei Cappuccini), tornando spesso sui siti più celebri talvolta con ossessiva meticolosità, quasi volesse provare a sviscerare il significato di una città verticale che, per nemesi storica, gli pare ergersi in eterna caduta.

Nei Musei Capitolini si ferma nella Sala dei Cesari (o degli Imperatori) e viene attratto da un busto di Augusto (il Ritratto di Ottaviano): «La testa è molto bella, e sembra quella di un uomo che medita, un filosofo, rattristato da una sorta di consapevolezza del fatto che, in fondo, essere al sommo della grandezza non conta nulla. È penoso seguire la decadenza di una civiltà attraverso una teoria di busti, e osservare come l’abilità artistica, così rifinita all’inizio, vada declinando lungo la cupa discendenza della dinastia dei Cesari, fino a quando per il ritratto del padrone del mondo non si riuscì ad avere miglior stile di quello necessario alla polena di una nave».

Un’affermazione – si badi – che è puramente ideologica e non derivata da una vera competenza estetica. Nella sala attigua egli sosta ammirato, invece, davanti al Galata morente, «non credo – commenta – che tanto pathos sia mai stato infuso in un blocco di pietra». E ci tiene a segnalare, per contrasto, la presenza contigua del tanto diverso Antinoo. E lì Hawthorne si ferma in quella prima visita ai Capitolini. Non è in grado di proseguire, girare l’angolo e scoprire nella sala attigua il Fauno di Prassitele che tanta importanza assumerà per lui in seguito. Le statue pretendono dall’osservatore – scrive – una «generosa elargizione di simpatia» che egli non è ancora pronto a concedere, soprattutto quando non riesce a riconoscere nel loro disegno un’inclinazione morale o un senso simbolico assimilabile a un qualche messaggio didascalico (cosa che invece gli riuscirà molto più avanti). Quella mattina del 21 febbraio il «gelo pungente» delle sale, «irradiato dalla freddezza della materia marmorea», lo spinge fuori delle mura capitoline in cerca di un po’ di refrigerio sulla piazza («Felice di aver lasciato il museo…»).
Ci si può chiedere perché Hawthorne volle intrattenere un rapporto lungo e ripetuto con Roma, un rapporto che si rivelò subito conflittuale e in apparenza insanabile. Invero, con la sua «aura di malignità», i suoi pesi sotterranei e di superficie, storici e contemporanei, la città sembra possederlo in un abbraccio quasi luciferino, una morsa non allentabile che, fra repulsione e inspiegabile attrazione, lo stringe a sé, sottoponendolo a una sofferenza continua pari all’«immortale agonia» che nei Musei Vaticani egli attribuisce a Laocoonte soffocato dalle spire di un’entità maligna. E, tuttavia, qualcosa prende ad agitarsi nella sua mente in quei mesi. È il fantasma di una strana creatura, inquietante eppure segretamente da lui accarezzata, un’ombra arcaica, che emana il fascino ambiguo di una più misteriosa sopravvivenza dell’antico.

L’intermezzo estivo – fuori dal senso opprimente della Storia – sarà capace di restituirgli una visione più serena dell’Italia, sebbene mai scissa da una caparbia sprezzante ironia evasiva e dal confronto confortante con i panorami o le ‘storicità’ della sua patria. Assisi lo consola ma senza intaccarne il distacco; Perugia lo entusiasma e gli concede «un vero piacere» con il Beato Angelico (per la sua «sincera religiosità») e il Collegio del Cambio, mentre la chiesa di Santa Maria Nova, bella all’interno, non gli appare «né di stile gotico né classico, ma un misto dei due e di impronta piuttosto barbara»; ad Arezzo più che il Duomo, di cui apprezza le vetrate (più belle di quelle inglesi), è la casa del Petrarca a interessarlo, mentre ignora – ma non c’è da stupirsi dato l’oblio in cui era caduta – la Basilica di San Francesco con gli affreschi di Piero della Francesca.

È a Firenze, e nella campagna toscana (a Bellosguardo), che Hawthorne ritrova un po’ di benessere. Firenze gli si rivela come «una città più nuova rispetto a Roma», le strade gradevoli da percorrere «dopo i tanti penitenziali pellegrinaggi romani su quei piccoli sassi squadrati che consumano gli stivali e tormentano l’anima. A Firenze – egli scrive – passeggio per il mero piacere di passeggiare, e vivo nella sua atmosfera per il mero piacere di vivere». Ciononostante, egli prova gusto speciale nel registrare indifferenza, fastidio o disincanto, verso i grandi maestri degli Uffizi: «Qui sono raccolti Giotto, e Cimabue, e Botticelli, e Fra Angelico, e Filippo Lippi, e altre centinaia di pittori che mi hanno ossessionato in chiese e gallerie sin da quando ho messo piede in Italia». Un po’ di coinvolgimento emotivo lo prova davanti all’agonia di Cristo come rappresentata in una «brutta» Discesa dalla croce. Questo dipinto lo commuove e lo costringe a riflettere sul proprio retaggio: «l’offesa tremenda che l’umanità inflisse (e infligge) al suo Redentore, e lo scherno dei suoi nemici, e il dolore di coloro che lo amavano, bussarono al mio cuore e vi trovarono accesso. Ancora una volta considero un peccato che il Protestantesimo abbia interamente cancellato questo modo di appellarsi al sentimento religioso».

È una ‘conversione’ importante. Il gelido figlio dei Puritani cade in tentazione. La solidarietà con le negazioni portate dalla Riforma, il blocco culturale e psicologico che gli impedisce di cedere a una qualsiasi forma di accoglienza dell’arte e delle pratiche cattoliche, iniziano a sciogliersi. A Siena, sulla via del ritorno a Roma, sarà turbato fino alle lacrime (e la moglie Sophia profondamente perturbata) dall’affresco del Cristo alla colonna del Sodoma. I dipinti acquistano speciale significato e giustificazione quando mostrano il pathos della sofferenza vòlto a stimolare anche nell’osservatore (oltre che nell’artista) una religiosità penitente. Hawthorne non è un mistico: egli va solo gradualmente negoziando nella sua mente un compromesso ideologico sia con la sterile iconoclastia del Protestantesimo sia con gli errori della Chiesa romana e le ambigue oscurità del passato classico.

Eppure, mentre ne nota la stridente contiguità con la Fornarina di Raffaello a Palazzo Barberini, a Roma, la stessa sofferenza misteriosa e contaminante egli aveva riconosciuto in un dipinto laico come il ritratto di Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni: «per quanto riguarda Beatrice Cenci – aveva scritto allora nel Diario – farei bene a non tentare di dire nulla, perché il suo fascino è indefinibile, e il pittore ha dipinto nel modo più simile alla magia che abbia mai visto. È un volto assai giovanile, fanciullesco, di perfetta bellezza, tutto circondato di drappeggi bianchi che avvolgono interamente la forma (…) L’intero volto è perfettamente tranquillo: non c’è distorsione o agitazione in nessun tratto; né riesco a capire perché non debba essere allegro, né perché un tocco impercettibile del pennello del pittore non l’abbia illuminato di gioia. Eppure è il quadro più triste che sia mai stato dipinto, o concepito; negli occhi c’è immensa profondità, e dolore; e ne abbiamo il senso per una sorta di intuizione. È un dolore che l’allontana dalla sfera umana; e tuttavia essa appare così pura che ci sembra che sia soltanto questo dolore, col suo peso e la sua oscurità, a tenerla sulla terra e a metterla alla nostra portata. Beatrice è come un angelo caduto, caduto senza peccato (…). È il quadro più profondo del mondo; nessun artista l’ha mai ripetuto, né potrà ripeterlo». Il ritratto dell’«angelo caduto senza peccato» (nel caso specifico la vittima dell’incesto), che aveva conquistato Shelley, e ossessionato Melville («Espressione di sofferenza intorno alla bocca – aspetto di innocenza che conquide»), provoca nei protestanti americani domande di natura più teologica che storica sul mistero di Beatrice, se lo si legge, come farà Hawthorne nel suo futuro romanzo, come il mistero della conoscenza del male, e della caduta dall’innocenza: un’ossessione puritana. Sull’orlo della Guerra di Secessione, anche gli Stati Uniti, in quegli anni, stavano perdendo la loro presunta originaria ‘innocenza’.
Nella seconda parte del Diario romano Hawthorne tace per più di quattro mesi: un silenzio giustificato dalla lunga malattia della figlia ma in realtà dovuto al fatto che lo scrittore aveva già messo mano al Fauno di marmo (o Trasformazione), il racconto che avrà come protagonista (assieme a tanti altri personaggi dipinti o marmorei del Diario) proprio quella strana silhouette dalle orecchie a punta – animatasi dalla pietra che la vincolava ai Musei Capitolini – con cui Hawthorne (il suo Pigmalione) si era accompagnato nel suo giro estivo e che aveva nutrito nella sua mente sin dai tempi delle sue passeggiate romane. Dopo aver attentamente studiato il Fauno di Prassitele, il 30 aprile del 1858 aveva scritto nel Diario: «Mi torna sempre alla mente l’dea di scrivere un breve romanzo (…). La figura del fauno porta con sé l’idea di una natura amabile e sensuale, semplice e allegra, incline allo scherzo, eppure non immune dal pathos. Il fauno non ha principi, tuttavia è sincero e onesto in virtù della sua semplicità; è capacissimo di affetto e potrebbe venire affinato nei sentimenti». «Affinato nei sentimenti» significa aver subìto la caduta nel tempo della Storia attraverso l’esperienza e il peccato.

Il romanzo Il fauno di marmo sarà la storia di una «metamorfosi» dalla coloritura ovidiana, corredata di un complesso messaggio di natura religiosa: la felix culpa, un nodo teologico, conciliante sulla natura del peccato, poco condiviso dai Puritani. Con la trasformazione del Fauno statuario in una creatura senziente, Hawthorne trova anche un modo di riconciliarsi con Roma divenuta, dopo il ritorno dalla Toscana, «più familiarmente e intimamente, la nostra patria tanto quanto il luogo in cui siamo nati». Una concessione su cui, chissà, magari in seguito vorrà ripensarci. Intanto, Il fauno di marmo esce nel 1860, quattro anni prima della morte del suo autore. È il primo romanzo su Roma scritto da un americano: un’affasciante allegoria, in cui il sovraccarico di reperti romani antichi (più che contemporanei) sembra musealmente studiato; un baedeker di alta classe che su Roma (mito e contro-mito) servirà a passare il testimone a Henry James, l’interprete di un’America un po’ mutata nei suoi orizzonti, e con qualche dollaro in più.