Qualcuno per scherzo lo diceva ieri sulle reti sociali. La soluzione del rompicapo politico spagnolo si chiama Ada Colau, la sindaca di Barcellona. Che propongano lei come presidente del governo, e che l’appoggino tutti i partiti di sinistra, dicevano alcuni twiteros. A parte che lei non ha alcuna intenzione, almeno per il momento, di lasciare la guida della sua città, ci sarebbe il piccolo problema che Ciudadanos non l’appoggerebbe.
Ma boutade a parte, una delle chiavi di lettura di queste elezioni sono proprio le «nuove» coalizioni locali che vincono dappertutto. In tutte le città dove oggi governano «nuovi» sindaci (Barcellona, Madrid, A Coruña, Valencia, Cádiz) Podemos e le sue alleanze hanno stravinto. E non a caso ottiene grandi successi nelle tre comunità con nazionalismi storicamente più forti: Catalogna, Euskadi e Galizia. La proposta di un referendum di autodeterminazione in Catalogna è stata di gran lunga la mossa più azzeccata di Pablo Iglesias per vincere in queste comunità autonome.
In Galizia, bastione popolare (qui al 37%), dove la questione nazionale è minoritaria (ma esiste), le maree (che inglobano anche Podemos, ma non solo) superano il Psoe con il 25% dei voti (e sei seggi).
In Euskadi la situazione è ancora più complessa. Vince Podemos per voti (26%) ma il Pnv (25%) ottiene un seggio in più (sei contro cinque); chi perde voti alla sinistra non socialista è EH Bildu, che ottiene solo due seggi (ne aveva sei 4 anni fa). Gli elettori di Bildu hanno visto aprirsi un’opportunità per l’autodeterminazione basca.
Ma il successo più spettacolare è proprio quello ottenuto da En comú podem in Catalogna. Stavolta Colau si è impegnata a fondo per il risultato, arrivando a chiudere simbolicamente la lista di confluenza. Alle elezioni catalane di settembre, senza l’intervento di Colau, l’analoga lista che aveva cercato di smarcarsi dall’asse «indipendenza sì o no», aveva ottenuto risultati molto più magri (ma allora c’erano anche gli anticapitalisti indipendentisti della Cup, che stavolta si sono astenuti).
I catalani hanno mandato deputati di ben sei partiti diversi a Madrid: un vero record. 12 quelli dell’alleanza di sinistra (25% dei voti), 9 Esquerra (16%), che diventa quindi il partito egemonico della coalizione Junts pel Sí che aveva vinto le catalane a settembre. Seguono a ruota Democràcia i Llibertat, la nuova marca di Artur Mas, con 8 deputati e il 15% dei voti. I socialisti, anche loro con 8 seggi (record negativo: ne avevano 14 quattro anni fa), racimolano una manciata di voti in più (15,7%). Ciudadanos, che a settembre aveva ottenuto ben il 25% (ed è il partito che guida l’opposizione nel Parlament di Barcellona) stavolta ha solo il 13% (e 5 deputati). Chiude il Pp, con altri 5 deputati (e l’11%), uno dei risultati più bassi di sempre.
La Catalogna aprirà le danze per la questione territoriale. Politicamente, senza la Cup, i due partiti di Junts pel Sí sommano un milione e centomila voti, il 31%. Una miseria confrontata con i due milioni che a settembre votarono chiaramente partiti filo-indipendenza (e con il milione seicentomila, 40%, di Junts pel Sí). Meno catalani si sono recati alle urne che a settembre. Ma il segnale è chiaro.
Ora per Artur Mas sarà tutta in salita. Esquerra già conta di più in voti, e la Cup, che finora ha chiesto la sua testa per appoggiare un governo di Junts pel Sí, si prepara alla sua assemblea di domenica in cui sottoporrà ai suoi militanti 4 opzioni: 2 contro l’investitura a Mas (in una chiedendo un altro nome entro il 9 gennaio, data limite pena le elezioni anticipate; nell’altra chiedendo direttamente le nuove elezioni) e due a favore (in un caso, alzando la posta e chiedendo un piano choc ancora più estremo).
Ma la questione è destinata a complicarsi. En comú podem e tutte le confluenze locali hanno i numeri per costituire un gruppo a parte nel Congresso. E hanno intenzione di farlo. Per Podemos sarà complicato gestirli tutti e 4, all’interno dei quali ci sono esponenti anche di altri partiti (come Iu o verdi). Ciascuno di loro prevedibilmente privilegerà l’identità locale rispetto alla disciplina di partito. Se vorrà l’appoggio di tutti, in primis dei catalani, Podemos dovrà mantenere la promessa sul referendum, cosa che potrebbe risultare complicata in un’eventuale negoziazione con il Psoe. Ma se la Catalogna lo dovesse ottenere, Euskadi non tarderà a chiederne uno analogo. E in Euskadi si vota tra pochi mesi (e magari anche in Catalogna): per eguagliare il successo di domenica, Podemos dovrà mantenere la barra dritta anche sull’autodeterminazione. E a Madrid è più difficile che a Barcellona o Vitoria.