Il primo elemento destabilizzante di Sole cuore amore è proprio il titolo del film di Daniele Vicari, regista di epocali movimenti di massa e film di denuncia dalla Diaz all’esodo degli albanesi, a cui non riusciremmo ad associare le canzonette. Il secondo è l’uso di importanza rilevante che nel suo film si fa della danza, tanto lontano dal suo modo di essere che lo assoceresti piuttosto a un assalto di pirati, alla sfida all’ok Corral, a una manifestazione di massa.

 

 

 

 

Eppure il cortocircuito che si forma serve a far procedere il racconto e prende senso nel fatto che ormai possediamo, schiavi moderni, solo la forza lavoro da ricostruire giorno dopo giorno oltre ad alcune catene di cui disfarsi: il «sole» da non lasciare per terre più inospitali anche se forse più redditizie, il legame d’«amore», il «cuore» che a volte potrebbe abbandonarci.
Dello stress che si accumula nella vita di Eli (la interpreta Isabella Ragonese che ha lavorato sulla «grazia» con cui la donna affronta le sue giornate di lavoro) lei sembra non rendersi conto, barista sette giorni su sette in un lontanissimo posto di lavoro che impiega svariate ore per raggiungere, una qualunque dell’enorme massa di pendolari che ogni giorno si muove dall’hinterland in città, unico sostegno della famiglia con marito disoccupato (Francesco Montanari) e quattro figli.

 

 

 

 

Il «controcanto» che diventa metaforico è rappresentato dalla sua migliore amica Vale (Eva Grieco) danzatrice che si esibisce nelle discoteche, due vite assai diverse, ma che in fondo si somigliano, poiché anche la barista si muove dietro al bancone e nella vita come danzando e con grande disciplina.

 

 

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Quello di Eli  è un personaggio piuttosto inedito nel cinema italiano, storicamente attratto da camerierine, gran signore o prostitute di ogni livello, mentre la televisione sguazza tra le professioniste (dottoresse, professoresse, poliziotte, quasi una versione politicamente corretta delle commedie anni ’70). Bisognerebbe risalire all’impiegatina di Olmi per arrivare poi al mobbing contemporaneo raccontato da Francesca Comencini. Qui il bar è anche una notazione autobiografica: «sono cresciuto in un bar, dice Vicari, mia madre gestisce un bar nella provincia di Rieti».

 

 

 

 

Il cinema italiano si tiene lontano della «vita normale». «Mi sono chiesto: perché ho sempre raccontato grandi eventi e non ho mai raccontato questo? Vado al cinema e non vedo mai gente che lavora: vedo sottoproletari che maneggiano pistole e coca, oppure vedo gente che ha problemi sentimentali e psicologici, ma di quello che uno affronta per risolvere i problemi quotidiani c’è ben poco. Spero che alla fine lo spettatore si ponga delle domande su questa nostra società non più conflittuale ma diventata autolesionista».

 

 

Ma perché la danza? «Per me questo è un film sulla danza perché attraverso la danza abbiamo cercato di interpretare la vita delle persone, anche la morte da interpretare con sentimento. La danza fornisce la lettura politica della storia. Eli ha un’estrema vitalità, si relaziona con il mondo in modo equilibrato, in maniera semplice e schietta e mai accusatoria. Quando parlo di danza è per come Eli si muove sul lavoro e nella vita». Ma dal punto di vista più direttamente politico? «Noi non abbiamo nulla a che fare con il potere, ne subiamo le conseguenze sotto forma di stipendi, orari di lavoro.

 

 

Il tema del lavoro non  c’è nel film, c’è il tema della vita. Il potere si trova nei palazzi del centro delle città, non tocca chi vive nelle periferie. La distanza tra loro e il potere è abissale. Spero che il pubblico si ponga delle domande su come siamo combinati, secondo me dobbiamo trovare altre strade». Però alla fine dichiara l’autentico punto di partenza da cui nasce il film, la storia di Paola che ogni giorno partiva da Foggia e ci metteva tre ore per andare a lavorare nei campi fino a morire di stanchezza: «La fatica, dice, è uno dei motivi per cui oggi si muore di più sul lavoro». Morta per due euro l’ora.