La «Disciplina del cinema e dell’audiovisivo» ha passato anche lo scoglio della Camera dei deputati e ora è legge. Si fa per dire, perché l’entrata in vigore è rinviata al primo gennaio del 2017 e la moltitudine di decreti attuativi prevista può rendere il tutto futuribile. Non solo. È una rivincita del Senato, che si vorrebbe ridurre ad appendice dell’assemblea di Montecitorio, vincitore morale in questo caso della lotta in seno al bicameralismo. Il testo approvato è rimasto identico, infatti, a quello trasmesso da Palazzo Madama lo scorso 11 ottobre.

Il manifesto ha già analizzato il brutto articolato poche settimane fa, sabato 27 agosto. Alla vigilia dell’apertura della Mostra del cinema di Venezia, dove il ministro Franceschini intendeva esibire uno dei suoi gioielli. Il cinema di Dario. Ma l’annuncio roboante non si concilia con articoli e commi, immersi nell’approccio del secolo passato, nonché stracolmi di retaggi analogici. Dell’era digitale sembra esserci ben poco, oltre ad un investimento piccolo per i circuiti delle sale e all’entrata in scena dei contenuti «videoludici»: sì, i videogiochi. Insomma, non è una riforma, bensì l’assemblaggio disorganico di punti e capitoli richiesti da talune associazioni di settore, in testa i produttori. La chiave di lettura sta proprio qui: si favoriscono i soliti noti, vale a dire coloro cui interessa la televisione più che il cinema, considerando quest’ultimo ancella subalterna.

Nell’universo ibrido e intricato della stagione digitale, proprio il cinema potrebbe diventare qualcosa di diverso dal suo essere un medium tra gli altri. È la necessaria cifra qualitativa dei linguaggi e degli stili che possono perdersi nella «eccedenza» digitale. Qualcosa di straordinariamente importante, per dare una dimensione culturalmente accettabile al blob generoso ma sregolato che ci si presenta. Sarebbe il «passaggio a nord ovest» di una rigorosa revisione legislativa, tale da favorire i soggetti e i gruppi realmente indipendenti, la creatività, il coraggio del rischio. Con involontaria e certo sgradevole comicità fu Matteo Renzi nella presentazione del nuovo kolossal Inferno a beatificare un riforma che avrebbe dovuto rompere proprio con quegli «amici degli amici». È accaduto l’esatto contrario. I salotti del ristretto capitalismo audiovisivo italiano escono premiati, a danno dell’autorialità e delle generazioni che di quei salotti non conoscono neppure l’indirizzo.

La prova concreta di simile impostazione  sta nell’inquietante articolo 13, dedicato al «Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo», dove il re è nudo. Del monte risorse di 400 milioni di euro previsto, alle opere prime e seconde, o ai film «difficili» (cioè il cinema che rende ancora accettabile l’immagine dell’Italia all’estero e vince i premi internazionali) sono destinati gli spiccioli: tra il 15% e il 18% del totale, cui vanno detratti i contributi a diverse attività istituzionali. Stiamo parlando, quindi, di una percentuale appena superiore al 10%. Ecco, l’85% è appannaggio della nomenclatura che facilmente rintracciamo nei titoli di coda, soprattutto delle fiction. In breve, una legge per i benestanti del settore, che si vorrebbe ulteriormente rimpinguare in nome della liberista concorrenza nel mercato globale. Auguri, guardatevi le serie americane (figlie di un’industria vera e curatissima) e poi ne riparliamo.

Il tema dei temi in corso di discussione in Europa – la regolamentazione dei servizi media digitali  – si riduce ad una delle deleghe al governo. Mentre, a buon senso, avrebbe dovuto se mai  ispirare l’intero svolgimento dei 41 articoli.

Il paradosso è che la televisione generalista, in crisi nei punti avanzati del villaggio, arriva ad occupare pressoché interamente il territorio cinematografico e il suo immaginario.

Un’occasione persa nel veloce tempo digitale significa uscire dal convivio. Del resto, l’Italia naviga nelle basse classifiche della libertà di informazione e del quoziente innovativo. Il cinema, popolato da straordinarie professionalità e da intellettuali forti malgrado le debolezze del sistema, meritava di meglio. Meritava, appunto, una riforma. Qualcosa si stava profilando nella prima lettura del Senato, quando le istanze degli autori sembravano aver trovato qualche ascolto.

Niente di che, le variegate burocrazie hanno, per ora, vinto.