Lo volle fortissimamente Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, quello che nel 2008 varò lo statuto degli «Stranamore» (il copyright è di Franco Marini, si riferiva non amichevolmente ai professori Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo che lo avevano scritto). Volle inserire il referendum degli iscritti fra i principi fondamentali del partito nascente, insieme alla vocazione maggioritaria e al segretario eletto dagli elettori. Art.27, «forme di consultazione e di partecipazione alla formazione delle decisioni del Partito». Può essere «consultivo» o «deliberativo». Per convocarlo serve la richiesta «del Segretario nazionale ovvero la Direzione nazionale con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti, ovvero il 30 per cento dei componenti l’Assemblea nazionale, ovvero il 5 per cento degli iscritti al Pd».

Della sua utilità Veltroni era convinto dal lontano ’94 quando il Pds, per scegliere il successore di Achille Occhetto, si inventò una consultazione dei dirigenti locali – prima assoluta in un partito ex comunista – che indicarono lui come preferitissimo. Così aveva fatto anche «il popolo dei fax», avo della cosiddetta «società civile» e che oggi organizzebbe la rivolta in rete. Ma poi il consiglio nazionale elesse Massimo D’Alema: 249 voti contro 173. I Bassolino, i Reichlin, i Ranieri – forse oggi li chiamerebbero «la vecchia guardia» – de Nel nuovo Pd i fan dell’istituto del referendum interno – una mezza bestemmia per un partito del 900 dove un dirigente diventava tale perché aveva (almeno) chiaro cosa pensava la base – sono i veltroniani. Come Goffredo Bettini, che ancora alle primarie del 2013, l’anno scorso, ne parlava come della «rivoluzione» per azzerare le guerre correntizie e di «ricostruire un rapporto vero con le persone, nell’esercizio della loro responsabilità politica individuale»; una forma «di democrazia deliberante attorno ai grandi temi, con procedure trasparenti, regolari, agili e condivise», per far sì che «gli i iscritti contribuiscano in modo determinante a decidere le scelte e indicare gli indirizzi».
Tradizionalmente più scettici i dalemiani, i bersaniani poi cuperliani e oggi ’riformisti’. Come sulle primarie: causa una fisiologica fiducia nel ruolo dei gruppi dirigenti, «il partito».

Fatto sta che né gli uni né gli altri hanno mai approvato quel «regolamento» che da statuto serve a rendere fattibile il ricorso alle urne. Un paio d’anni fa ne ha proposto uno Pippo Civati. Nel 2009 ci aveva provato Ignazio Marino, per chiedere ai gazebo l’orientamento sul biotestamento. Erano i mesi del «ma anche» veltroniano e dei ’teodem’. Un ricercatore del Cnr, Raffaele Calabretta, ha preso a cuore la questione e da anni scrive libri sulle «doparie», cioè consultazioni «dopo le primarie», «richieste dai cittadini, per verificare dal basso scelte e comportamenti dei politici, ma anche proposte dai partiti, per conoscere l’umore dell’opinione pubblica su grandi temi d’interesse generale. Il testamento biologico, la Tav in val di Susa, il caso Alitalia, le alleanze».

Fatto sta che il regolamento non è mai arrivato. «Non per cattiveria, ma perché non serve. Quando verrà convocato un referendum, basterà un voto un direzione», minimizza Nico Stumpo, già capo dell’organizzazione nell’era bersaniana. In pratica nel Pd il referendum c’è ma non si fa: su questo la «larga intesa» fra sinistra e destra del partito è massima e inossidabile. Renzi, già pasdaran della consultazione, ora che il referendum viene agitato contro il segretario – cioè lui – è colpito da un’amnesia. Lorenzo Guerini, viceleader e attuale capo dell’organizzazione, alla sola parola chiede «di abbassare i toni» e non «minacciare sfracelli».

Ora che governano il partito, gli antichi referendari si scoprono partitisti convinti. I renziani più solerti e incauti teorizzano apertamente: «A chi pensa che basti far balenare l’idea della consultazione popolare per annacquare la riforma del lavoro rispondiamo che gli italiani non possono più aspettare» (Federico Gelli); «Una richiesta fuori luogo, il Pd ha i suoi organismi democraticamente eletti al congresso e all’interno di questi si devono prendere le decisioni che i parlamentari hanno il dovere di rispettare in aula con il loro voto».

Ragionamento che però potrebbe valere sempre, con buona pace dell’art.27 dello statuto del Pd. Che dunque finirà rottamato di fatto. Proprio come l’art.18 di quell’altro statuto – quello dei lavoratori -. Magari con minore rimpianto.