Sei anni dopo la rivoluzione egiziana del 2011, regna ancora tra i contendenti un sentimento evasivo, l’idea che «la faccenda non è ancora chiusa». La contro-rivoluzione ha ottenuto una vittoria decisiva a metà 2013, ma «la faccenda non è ancora chiusa».

In migliaia sono stati uccisi, decine di migliaia braccati, torturati e imprigionati, ma «la faccenda non ancora è chiusa». Una dittatura militare controlla oggi tutti gli spazi pubblici e soffoca ogni nicchia di opposizione, anche la più mite, ma «la faccenda non è ancora chiusa».

Non si tratta né di magia né del riflesso della spinta delle forze rivoluzionarie. Piuttosto, è la testimonianza di un semplice fatto: la rivoluzione, come colossale movimento di massa, seppur incompleto e – ahimè – sconfitto in senso tecnico, ha lasciato l’alleanza della miriade di forze di governo e del loro apparato statale in condizioni irreparabili.

La rivoluzione ha fallito nel creare un nuovo ordine politico e sociale, sia parziale che totale, sia diretto che indiretto. Dopo due anni e mezzo di innumerevoli sollevazioni e confronti, la contro-rivoluzione ha ripreso il controllo. Ma «la faccenda non è ancora chiusa».

Anche se la sfida rivoluzionaria si è placata, non cambia il fatto che il vecchio ordine governativo, una volta riappropriatosi del potere, si è putrefatto tanto da essere incapace di continuare a governare con i vecchi metodi usati con successo nella sua età dell’oro.

La rivoluzione egiziana del 2011-2013 è stata, in qualche modo, l’apice di un lungo dramma che continua, ovvero la crescente incapacità del vecchio ordine.

Lo Stato indipendente post-coloniale, fondato da Nasser e i suoi colleghi, ha subìto fallimenti su fallimenti, dalla sconfitta militare del 1967 in poi, fino a raggiungere il suo «limite storico» negli anni precedenti la rivoluzione.

Il cuore della questione sta nel fatto che tutti i giochetti e i trucchi impiegati non sono riusciti a risolvere il più importante e cronico dei problemi sofferti dallo Stato e dalla borghesia egiziani: raggiungere e mantenere un alto livello di accumulazione di capitale sul lungo periodo, necessario a far diventare l’Egitto una forte economia capitalista.

La storia dell’Egitto degli ultimi 50 anni è stata caratterizzata da un centro di accumulazione vacillante. Già dalla sconfitta del 1967 l’Egitto ha perso un passo alla volta il suo potere relativo e la sua forza regionale e internazionale. Quello che il potere è riuscito a fare è stato soltanto di evitare che questa decomposizione terminasse in una completa disintegrazione.

Nel suo significato più profondo, la rivoluzione egiziana ha rappresentato la speranza di uscire fuori da questo vicolo cieco in un modo umano e progressista. I milioni e milioni di persone che gridavano nelle strade «Il popolo vuole far cadere il regime» rappresentavano la vaga presa di coscienza di certi settori della massa laica (non necessariamente della maggior parte dei politici e degli attivisti) che quello che era necessario fare era liberarsi di qualcosa di più grande di Mubarak e della sua piccola combriccola. Quello che serviva era andare più in profondità.

Come tutti tristemente sappiamo, la rivoluzione ha fallito nel fare il suo lavoro. Nel frattempo la contro-rivoluzione ha reclamato che solo attraverso la distruzione di ogni forma di ribellione e opposizione «finiremo il lavoro», «renderemo l’Egitto Om el-Donia (la madre di tutto il mondo) di nuovo».

Ma dopo tre anni di contro-rivoluzione è evidente ad ampi settori della popolazione, compresi quelli che ancora odiano la rivoluzione, che l’ordine militare del regime di al-Sisi è un enorme fallimento.

Ora l’Egitto sta passando attraverso un periodo intermedio: la rivoluzione è vituperata, ma la contro-rivoluzione è fallimentare; il popolo è furioso ma inattivo; la paura scompare lentamente, ma la speranza è ancora lontana; la debolezza del regime gareggia con la debolezza dell’opposizione.

Nessuno osa dire che una nuova rivoluzione è dietro l’angolo, ma la maggior parte della gente concorda che una qualche forma di cambiamento politico è incombente.

E sebbene la rivoluzione sia una parola odiata, un ricordo odiato, da vasti settori della popolazione egiziana, il retaggio della rivoluzione non è dimenticato. In fondo alla sua mente, in un angolo profondo della sua coscienza, il popolo rigetta ancora il ritorno alla routine di soggiogamento umiliante pre-rivoluzionario.

Ci sarà bisogno di tempo e di certo sarà un percorso duro, ma la questione incompiuta della rivoluzione un giorno si completerà.

*L’autore è analista e attivista socialista indipendente