Gilles Deleuze, si sa, considerava i giornalisti che scrivono libri, come uno dei segni più nefasti della decadenza dei tempi. In un certo senso, la sua diagnosi è stata anche confermata e superata dalla tendenza contemporanea che vede libri scritti da giornalisti come Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo e Bruno Vespa raggiungere le cime delle classifiche dei best seller. Si tratta spesso di libri che raccontano delle storie che sebbene i dettagli cambino, restano sempre le stesse, che contribuiscono a consolidare un ordine del discorso già dato (la legalità, la casta, il potere). Deleuze, però, non sarebbe sicuramente indignato dal volume La rete dall’utopia al mercato (ecommons-manifestolibri, pp. 173, euro 16) di Benedetto Vecchi, giornalista di una testata libera come il manifesto, e in particolare giornalista culturale che negli anni ha seguito con costanza l’evoluzione delle tecnologie di rete, vedendo appunto la rete scivolare inesorabilmente «dall’utopia al mercato».

All’apparenza anche questa potrebbe sembrare una storia scontata. Nel titolo del volume, troveremmo condensata tutta la parabola discendente della breve storia della Rete a quella di un paradiso perduto, in cui l’utopia si fa brutalmente commercio, consumo, scambio, accumulazione, alienazione, controllo, e sfruttamento. E purtuttavia nello spazio che si dispiega tra il titolo e la serie di saggi che compongono il volume, questo slittamento dall’utopia al mercato lungi dal risolversi in una storia banale, si rivela essere pieno di pieghe e di sfumature inattese, che si aprono anche alla possibilità che la rete possa tornare ad essere non tanto utopia quanto un potente mezzo di rovesciamento dei rapporti di forza.

Le pieghe che compongono il volume sono letteralmente altri libri, o comunque saggi. C’è qualcosa di affascinante nel vedere come il pensiero del giornalista, e in particolare quello del giornalista-recensore di una testata militante come il manifesto, attraverso la pratica della recensione, si dispieghi correndo letteralmente tra i libri e nei libri, selezionando, forse anche attraverso la sua frequentazione di mailing list di nicchia, nella marea montante di volumi su Internet, i saggi più significativi, per raccontare la trasformazione di Internet «da utopia a mercato» al di là dei luoghi comuni, in maniera critica, ma allo stesso tempo rigorosa, curiosa e ambivalente. Un libro fatto, come tutti i libri in fondo, di altri libri, sostenuto e nutrito dalla pratica della recensione, che però non rinuncia alla propria prospettiva.

Il nodo dello sfruttamento

rete1

È chiaro infatti come l’autore attraversi questo fiume di parole che si sono riversate sulla rete mantenendo ferma la propria bussola e il proprio orientamento intellettuale e politico. Centrale è l’importanza di continuare ad insistere sulla critica dell’economia politica della rete, di sottolineare la propria differenza da prospettive liberali e libertarie, anarco-capitaliste o neo-keynesiane, continuando ad aderire ad una prospettiva marxista, plurale e aperta, liberata da qualsiasi dogmatismo, ritradotta in una revisione degli strumenti dell’analisi marxiani che tenga conto delle trasformazioni del modo di produzione e di una sempre necessaria reinvenzione delle categorie usate per cogliere la relazione tra sfruttamento ed emancipazione. Nel volume questa analisi si materializza nell’intuizione, sviluppata in una ibridazione feconda tra critica della rete e dell’economia politica, da un lato sulla coesistenza di controllo sociale e sfruttamento economico, e dall’altro sulle dinamiche di creazione di valore e ricchezza nella cooperazione sociale.

Allora nello slittamento dalla rete in quanto utopia di un nuovo spazio che introduce una differenza radicale rispetto alla realtà (esemplificato dalla «Dichiarazione di independenza del ciberspazio» di John Perry Barlow) alla connessione costante delle «realtà miste» della comunicazione ubiqua e mobile, è il termine «mercato» a pesare di più. Internet è ormai mercato e fabbrica, un mondo soggetto alle leggi dello scambio, dello sfruttamento e della valorizzazione economica. E purtuttavia questo rovesciamento non produce solo una nuova schiavitù, ma una situazione nuova che corrisponde allo slittamento del centro della produzione economica verso l’innovazione, dove l’innovazione stessa non è il monopolio dell’imprenditore alla Steve Jobs, ma un prodotto della socializzazione, e quindi della traduzione continua di conoscenze tacite in conoscenze formali (algoritmi, protocolli, interfacce, applicazioni), della scomposizione e ricomposizione innovativa dei flussi di conoscenza e informazione. La trasformazione della rete in mercato è il segno di una trasformazione sociale ed economica in cui è la cooperazione sociale e il suo prodotto, l’innovazione, a rappresentare la fonte del valore economico, la forma del lavoro vivo postindustriale.

Interlocutore fondamentale in questa rilettura è il peso e la mole degli scritti di matrice liberale, libertaria e anarcocapitalista, prevalentemente statunitensi, che costituiscono un discorso egemone sulla rete in quanto nuova tecnologia di produzione. La tensione che questo saggio stabilisce è dunque con un discorso teorico (quello liberale) che pur teso a comprendere le novità introdotte dalla rete in quanto mezzo di produzione e comunicazione inesorabilmente tende anche a presentare Internet alla luce delle categorie e concetti dell’economia neo-classica. Allora anche i saggi di un autore come Yochai Benkler, teorico della produzione sociale e p2p, possono essere letti come traduzione di una novità eccedente (la cooperazione sociale che produce il software open source, Wikipedia, i contenuti delle piattaforme di social networks), nel linguaggio rassicurante delle scelte razionali e motivazioni individuali coordinate da una «mano invisibile» del sociale. È questa una interpretazione influente dell’economia peer-to-peer per cui quest’ultima, pur fondando un nuovo modo di produrre, non sfida le leggi fondamentali dell’economia (la legge del costo marginale per esempio).

Oltre la distopia

rete2

Il volume attraversa dunque una molteplicità di saggi ed analisi sulla rete, considerando di ogni analisi gli elementi preziosi, ritornando costantemente alla necessità di pensare alla relazione tra controllo e sfruttamento da una parte e innovazione e emancipazione dall’altra. L’unico genere di letteratura critica su Internet con cui Vecchi comprensibilmente mostra impazienza è forse il genere che possiamo definire «distopico», il rovesciamento dell’utopia, i detrattori di Internet che vedono la rete come luogo di sorveglianza totale, massificazione della produzione culturale, perdita degli standard qualitativi della cultura e simili. Non c’è ritorno possibile neanche ad una soggettività operaia incentrata sul lavoro di fabbrica che per alcuni sarebbe il luogo in cui ritrovare il centro di gravità permanente ma perduto della politica comunista. Il lavoro vivo ai tempi della rete è multiforme e proteico; non è la divisione del lavoro nella fabbrica che ci dà la classe in grado di rifondare il comunismo, ma l’evento della cooperazione sociale che produce invenzione e la valorizza.

In questo senso, La rete dall’utopia al mercato forza continuamente i limiti dell’economia politica, anche marxiana. La domanda fondamentale che ritorna nel volume è dunque questa: qual è la logica immanente della produzione di valore nella cooperazione sociale così come svelata dal mercato/fabbrica Internet e come è possibile pensare ad una sua emancipazione considerando l’intensità di questo sfruttamento economico che prende le forme di un controllo sociale opaco e automatizzato? Quali sono i limiti che l’organizzazione di questo lavoro proteico e multiforme (militarizzato, precario, servile, schiavista, «libero», volontario o cooptato) una volta che esso cerca effettivamente di spingersi oltre la produzione verso l’organizzazione politica?

La trappola del dono

rete3

Il primo limite, che è analitico, si concentra attorno all’opposizione tra la «monade» postulata dall’analisi neoclassica della produzione sociale, cioè l’individuo proprietario come soggetto razionale della scelta, e l’«individuo sociale» di matrice marxiana. Che significa porre non l’individuo proprietario, ma l’individuo sociale come soggetto della cooperazione sociale? Vecchi incontra qui i limiti della saggistica sulla cooperazione sociale in Internet, che si è avvitata rispetto alla categoria antropologica di dono. La logica della cooperazione sociale sarebbe dunque quella del dono, ma è possibile ridurre la cooperazione sociale allo scambio di doni? È la teoria del dono uno strumento sufficiente a rendere conto della relazione tra costruzione di «società» (collettivi, gruppi, reti), invenzione di valori etici, culturali, estetici, politici e produzione di valore economico? In secondo luogo, il limite empirico delle forme di resistenza e organizzazione politica dati nella rete. Gli anonymous, le cosiddette «primavere» arabe, wikileaks e altri fenomeni di organizzazione politica in rete sembrano essere condannate a differenza degli esperimenti di produzione economica a essere eventi effimeri, senza durata in grado di incidere a lungo termine sui processi politici. Tra l’espropriazione del comune della cooperazione sociale e la sua riappropriazione, la rete emerge come tecnologia sociale attraversata da una tensione ambivalente e costituente: «misura della miseria del presente e spazio per quella ricchezza del possibile senza la quale è inimmaginabile una politica radicale della trasformazione».