Le stanze di casa, le strade buie, gli angoli reconditi fuori dalle rotte turistiche e, infine, gli oggetti vissuti come apparizioni di ciò che si è smarrito, evocazione di una storia che non c’è più. Che sia quella di una grande metropoli come Istanbul o di un amore privatissimo, divenuto universale proprio quando è stato inghiottito nelle nebbie del passato, un passato che, nonostante tutto, non ritorna. E poi, l’ossessione del tempo che si è fermato, come mostrano le centinaia di sigarette spente nell’attesa, quelle che lo scrittore Orhan Pamuk ha immaginato essere state succhiate con la voracità del desiderio da Kemal, il personaggio principale del suo romanzo Il Museo dell’innocenza, e anche la voce narrante, nascosta, che si intuisce tra le teche museali vere, seminando tracce in un rebus di ricordi, mescolando verità e utopia.

museo-dell-innocenza
[object Object]

Il potere consolatorio degli oggetti è la ragnatela leggera che si estende su un percorso alternativo capace di penetrare nelle viscere di Istanbul: il Museo dell’innocenza, nato nel 2012 in Cukurcuma Caddesi, racconta una vita, un’ossessione amorosa e insieme una finzione della memoria. L’ha voluto Pamuk stesso per creare una topografia di rimandi in un atlante sentimentale che ha disegnato prima con le parole, poi con le «cose» appartenute ai protagonisti della passione irrisolta, Kemal e Füsün. Ora le maglie della ragnatela si allargano e fanno posto anche a una nuova proiezione, quella cinematografica, che arriva sul grande schermo per soli due giorni, oggi e domani (distribuita da Nexo Digital). Diretto da Grant Gee (che già nel 2012 aveva lavorato intorno a un altro maestro dei rinvii geo-emozionali come Sebald), Istanbul e il museo dell’innocenza di Pamuk è un film labirintico, popolato di ghosts che riaffiorano dopo trent’anni di tragica assenza: la voce dell’amica di Füsün (rientrata in Turchia dopo tredici anni) introduce lo spettatore tra le camere e nell’intimità della casa dove lei abitò davvero con la sua famiglia, e dove Kemal passò centinaia e centinaia di serate, fingendosi un cugino di fronte al marito della sua amata, ormai donna irraggiungibile, lanciata verso un destino di attrice che non si realizzerà.

museoinnocenza1-592x444
[object Object]

E c’è anche Istanbul, ripresa in notturna, inseguita in scorci e su sentieri svaporati, una città che fluttua come un fantasma e che, a sua volta, abbraccia altri fantasmi. Passano nelle foto, nelle pose in cui vengono ritratti i personaggi, soprattutto gli abitanti dei quartieri d’elite, trent’anni di una complessa storia turca, quella che va dal 1970 al 2000. E, per chiudere il cerchio vertiginoso, c’è la costruzione simbolica della persona attraverso l’uso dei totem, la disseminazione di sé. È questo lo scarto letterario e cinematografico più interessante. Kemal collezionava in modo maniacale piccole cianfrusaglie toccate, sfiorate, annusate da Füsün (il rossetto rosso fatto scivolare nella tasca) per comporre un reliquario laico e feticistico dell’amore perduto; il suo «ordito» è rimasto congelato per sempre nel museo, grazie alla complicità di un autore come Pamuk. È lì che l’impalpabilità di una sensazione diventa narrazione, biografia, struggente luogo da visitare. «Il futuro dei musei è dentro le nostre case», dice lo scrittore premio Nobel. Anche in strada, se si fa riferimento all’ultimo libro di Pamuk, La stranezza che ho nella testa, il romanzo che pedina giorno e notte il venditore di boza Mevlut Karatab.