Considerata la effettiva levatura del personaggio, era nelle cose che una immensa tragedia, come la sconfitta senza appello ricevuta in uno storico referendum che avrebbe dovuto incoronarlo, si tramutasse in burla. Che Renzi uscisse di scena, recitando, prima del commiato per lui inevitabile, la parte residua con un repertorio da barzelletta, era prevedibile. Invece di prendere atto dell’accaduto, egli sembra raccontare la trita storiella.

C’era un francese, un grande generale che, trafitto dal plebiscito sulle riforme del senato, abbandonava l’Eliseo e rinunciava per sempre alla politica. C’era poi anche un inglese, un conservatore che, inciampato in un incauto referendum sull’appartenenza all’Europa, rinunciava al numero 10 di Downing Street e al seggio ai Comuni per rifugiarsi nel dimenticatoio.

E poi però compare il furbo. Ha ovviamente il volto di un politicante italiano. Anche lui aveva posto la fiducia su se stesso affidando al popolo l’incarico di dire sì a un facile plebiscito (volete ridurre i costi della politica e abbattere il numero dei parlamentari?). Una valanga di voti lo ha travolto. Ma lui però non è un fesso come gli altri, e si arrocca. Affida a una direzione surreale e senza dibattito l’estremo e infantile tentativo di ripartire con il 40 per cento.

Cerca così di spingere il suo partito a manovre dilatorie o persino a scelte provocatorie (irridere il popolo sovrano senza neppure chiedere: «quando sia poi di sì gran moti il fine / non fabriche di regni, ma ruine?») pur di ottenere un reincarico e formare il nuovo governo.

Una cosa inaudita. Sfidare i 20 milioni di No, dopo aver personalizzato senza ritegno la contesa, è prova trasparente di avventurismo. Come l’eventuale vittoria del Sì avrebbe avuto benefici per lui incalcolabili (investitura plebiscitaria, personalizzazione del potere), così la prevalenza del No scatena dei costi obiettivi da cui è per Renzi impossibile sottrarsi.

Nessun vincolo giuridico è toccato, nulla di formale è in questione. Si parla qui solo il linguaggio politico della inappellabile sovranità popolare.

Prendersi gioco di venti milioni di cittadini, che hanno emesso una sentenza univoca che non consente ulteriori esercizi di ermeneutica, è da irresponsabili. Evocare lo scontro con il popolo sovrano, ignorando il responso delle urne, è un atto di arroganza senza precedenti. Costringere il capo dello Stato al reincarico di un politico che marciava per l’incoronazione della folla e ha invece incrociato la sfiducia del popolo sarebbe un atto dalle conseguenze inimmaginabili.

Tocca al non-partito di Renzi ristabilire il principio di realtà e quindi scongiurare avventure dopo il 4 dicembre.

Come hanno fatto i conservatori inglesi dopo la defenestrazione referendaria di Cameron, il Pd deve prospettare un altro governo, con un nuovo premier. Quello che è caduto in disgrazia è, infatti, solo il leader che ha indicato come posta in gioco del referendum la sua permanenza al potere.

Non si tratta di evocare una semplice questione etica, e quindi impolitica, che esige il rispetto della parola data. È in discussione piuttosto un fondamentale principio politico.

Nessun leader, per restare in sella, può condurre una guerra contro il popolo.

Ne consegue che Renzi deve accettare l’oblio. Non ha alcuna possibilità di permanere al governo e nemmeno, ma questo dipende dal suo non-partito, può conservare la leadership del Nazareno vantando la fedeltà di 13 milioni di baionette. A una ascesa precoce al potere segue per lui una altrettanto celere caduta nelle retrovie.

È una legge della politica che non permette eccezioni. Poiché Renzi non sembra volerne tener conto aderendovi di sua spontanea volontà, adesso spetta alle componenti del Pd meno predisposte allo spirito d’avventura (la minoranza di sinistra, i cattolici più accorti, il presidente Orfini) ricondurlo alla ricognizione dei rapporti di forza che indicano come sia cominciata una nuova stagione politica, con attori, strategie, scenari tutti da reinventare.

Il renzismo è già finito e Renzi, con le sue aspettative di reconquista, non se la passa meglio.