A modo loro anche i dati sulla deflazione, sconfortanti nonostante la lieve ripresa dei prezzi a dicembre, sono per il governo una battaglia persa. Una delle tante che rendono la promessa di continuità con il governo Renzi ribadita da Paolo Gentiloni una chimera.
La deflazione non è un incidente imprevisto. È una tempesta annunciata, contro la quale l’Europa e la stessa Italia hanno cercato di proteggersi per tempo. Da noi è andata molto peggio che altrove.

Il dato negativo si inserisce in un puzzle omogeneo, su molti tasselli del quale le responsabilità del governo Renzi sono marcate. Del resto lo stesso Gentiloni ha smentito la sbandierata continuità escludendo ogni possibile intervento sull’Irpef l’anno prossimo: col che di fatto si è sottratto a quello che il suo predecessore considerava il principale impegno per il 2017 nonché il miglior viatico per le prossime elezioni.

Lo stesso Renzi, se anche fosse rimasto a palazzo Chigi, sarebbe stato costretto a rimangiarsi quella promessa, dovendo fare i conti con la richiesta europea di una manovra aggiuntiva per i prossimi mesi e con un contenzioso tutt’altro che risolto sulla crisi bancaria italiana. Crisi che, a sua volta, è uno smacco del governo. Renzi, per paura dell’impopolarità che il salvataggio delle banche avrebbe provocato dopo il caso Banca Etruria, ha preferito non impegnarsi per tempo e scommettere su un intervento privato che non è arrivato, con conseguenze esiziali. Sul fronte dell’economia, volente o no, Gentiloni dovrà cambiare marcia. Ma non solo su quel fronte.

Il panorama complessivo delle riforme del triennio Renzi è fallimentare da tutti i punti di vista. La sorte della riforma costituzionale, che l’ex premier considerava il passaggio fondamentale del suo governo, è nota. La legge elettorale, in nome della quale il fiorentino si era installato a palazzo Chigi, è tornata al punto di partenza. Colpa del referendum. Colpa dell’incostituzionalità che certamente la Consulta certificherà. Ma colpa anche dell’imperizia con cui è stata imposta una legge sbagliata che lo stesso Renzi, prima del referendum, si era impegnato a modificare. Anni inutili, di falso movimento.

Il Jobs Act è, a sua volta, un disastro. Lo dicono i dati, quando non sottoposti a vertiginosi giochi di prestigio, e soprattutto lo dicono tutti gli attori in campo tranne il governo che quella legge scellerata ha varato. Se Gentiloni non riuscirà ad aggirare il quesito, saranno anche in questo caso gli elettori ad affondare la riforma. Ma se anche ci riuscisse, dovrebbe modificare alcuni punti chiave. Proprio come successo per la Buona Scuola, dove è stata la nuova ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, a chiudere con i sindacati l’accordo che smantella uno dei capisaldi della riforma, quello sul trasferimento degli insegnanti e sull’obbligo di permanenza per almeno 3 anni nel posto di ruolo assegnato.

Modifica strutturale che peraltro non basterà a sanare il caos provocato dal confuso intervento del governo Renzi e della ministra Giannini. Sulla riforma della Pubblica amministrazione è andata peggio. La Consulta non si è limitata a demolire un punto, sia pur fondamentale: ne ha smantellati quattro, riducendo così la riforma stessa a un guscio vuoto.

Anche se volesse con tutto il cuore proseguire sul sentiero tracciato dal fiorentino, Gentiloni non potrebbe farlo, essendo quel sentiero sepolto da macerie. Si spiega così, probabilmente, la fretta di correre al voto che imperversa al Nazareno. L’illusione sorta subito dopo il referendum, quella di capitalizzare il 40% di Sì trasferendoli di peso sotto i vessilli Pd, è già tramontata. Ammesso che avesse un senso, sarebbe stato necessario votare in tempi davvero brevissimi, al massimo entro marzo. La corsa contro il tempo, ora, serve soprattutto a impedire che Gentiloni sigli la discontinuità, sancendo così ufficialmente il fallimento del suo segretario. Come sarà invece costretto a fare se resterà a palazzo Chigi per un interno anno.