«Non avrei dovuto pubblicare quell’articolo, ho sbagliato e per colpa mia a rimetterci sono stati il paese e la popolazione». Questa, in breve, la confessione del giornalista Wang Xiaolu, alla televisione nazionale cinese.

In quella che è ormai diventata una pratica durante il regno di Xi Jinping, insieme all’umiliazione dell’arresto anche quello della confessione, Wang – già autore di inchieste poco gradite al governo di Pechino – ha confessato in tv di aver sbagliato: ha scritto un articolo, nel quale ipotizzava un disimpegno del governo dal mercato azionario. E proprio a causa di quel «pezzo» sulla rivista Caijing, avrebbe scatenato il panico degli investitori cinesi, finendo per mettere in ginocchio la borsa di Shanghai. Insieme a Wang sarebbero altri 196 ad essere stati colpiti dalla repressione.

«Puniti» per aver diffuso rumors che avrebbero creato panico e confusione, tanto per quanto riguarda la borsa di Shanghai e Shenzhen, quanto per l’esplosione avvenuta a Tianjin nelle scorse settimane. La Cina, soprattutto prima che tutto il mondo assista al suo sfoggio di forza nella parata del 3 settembre per ricordare la sconfitta del fascismo giapponese – deve assolutamente trovare una o più cause al crollo delle borse e ai mancati e immediati chiarimenti su quanto accaduto a Tianjin. Così almeno 197 persone, tra le quali giornalisti, broker, manager di importanti società finanziarie, sarebbero stati «puniti» dalle autorità per aver diffuso notizie false che avrebbe scatenato il panico.

Le misure annunciate dalla Xinhua, vanno ad aggiungersi all’ondata di arresti della settimana scorsa, che ha visto finire in carcere alcuni dirigenti del porto di Tianjin e noti broker di Shanghai, in tutto una trentina di persone. Secondo il Financial Times il governo di Pechino avrebbe deciso, in una riunione che si sarebbe tenuta giovedì scorso, di non intervenire con ulteriori acquisti per salvare la Borsa e di concentrarsi sulla repressione contro i soggetti sospettati di aver «destabilizzato il mercato».

Il governativo Global Times, ha scritto che questa attenzione alla repressione, potrebbe essere un chiaro segnale della leadership a far ritornare alla normalità il mercato azionario (prima del viaggio di Xi negli Stati uniti, dicono altri).

Secondo il quotidiano filo governativo, «il governo sembra prestare maggiore attenzione alla disfatta del mercato azionario; venerdì il premier Li Keqiang ha spiegato al Consiglio di Stato che la stabilità finanziaria è stata significativa: è importante favorire un mercato dei capitali aperto e trasparente con una stabilità a lungo termine e garantirne il sano sviluppo, ha detto Li. Il premier ha anche aggiunto che la gestione del rischio deve essere migliorata per evitare rischi regionali o sistemici». Ancora più chiari alcuni editoriali apparsi sui quotidiani cinesi e chiaramente indirizzati all’Occidente.

I cinesi si difendono: non siamo in crisi, sembrano dire, né nascondiamo i nostri problemi. In un commento sul Global Times, si risponde così a Foreign Policy, che aveva recentemente messo in dubbio la solidità del «secolo cinese».

«La Cina – è stato scritto – conosce i suoi problemi e le sue difficoltà meglio di chiunque altro, e siamo ben consapevoli che ci sarà una varietà di curve e tornanti durante lo sviluppo del paese. I paragoni tra la Cina e l’occidente sono per lo più superficiali. Definire il 21° secolo in base agli equilibri di potere è più simile a scrivere una poesia, che non riflettere la realtà».

L’economia cinese – viene specificato – diverrà gradualmente la numero uno al mondo. «Fino a quando la Cina non sarà divisa, una così semplice previsione economica si rivelerà essere l’unica risposta».

Ma non mancano i punti deboli: «la qualità dell’economia cinese e la sua governance sociale sono tutt’altro che di prima classe». E gli arresti per i rumors, lo confermano, senza dimenticare che durante la leadership di Xi Jinping abbiamo assistito ad una repressione degli attivisti, compresi i loro legali, come mai si era vista dai tempi post Tiananmen o da quando nel 2011 Pechino aveva agito contro una potenziale «rivoluzione del gelsomino».