Il premio Nobel per la medicina di quest’anno va a un giapponese, il biologo cellulare settantunenne Yoshinori Ohsumi, del Tokyo Institute of Technology di Yokohama, per aver spiegato i meccanismi dell’autofagia. Come spesso accade con le previsioni sui premiabili, chi pensava che il Karolinska Institutet svedese coronasse già quest’anno la tecnica di editing genetico Crispr, di cui ci siamo occupati molto su queste pagine, è rimasto deluso. Jennifer Doudna ed Emanuelle Charpentier sono restate a bocca asciutta: è probabile che fino a quando non verrà risolta la milionaria controversia brevettuale che vede le due ricercatrici scontrarsi con Feng Zhang del Broad Institute l’accademia non si voglia arrischiare ad assegnare il premio. Per non parlare dell’enorme problema di stabilire chi sarebbe il terzo (il Nobel può essere dato al massimo a tre persone): il loro competitor brevettuale Zhang, che è riuscito a dimostrare la viabilità pratica della tecnica? Il microbiologo spagnolo Francis Mujica, che negli anni 90 scoprì le sequenze ripetute di dna nei batteri che hanno portato, anni dopo, le due ricercatrici a ideare il sistema «copia/incolla» per operare una correzione? In Spagna, con una certa dose di sciovinismo, il suo nome è dato come sicuro nell’eventuale Nobel prossimo venturo alla tecnica.

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Sia come sia, anche quest’anno l’Accademia è stata cauta. Tanto più che il Karolinska aveva già i suoi problemi: a febbraio era stato costretto ad annunciare che il contratto del chirurgo italiano Paolo Macchiarini, uno dei professori del potente istituto di ricerca, non sarebbe stato rinnovato per condotta scientifica scorretta. Molti membri della prestigiosa assemblea di 50 professori che scelgono ogni anno a chi assegnare il Nobel avevano annunciato che si sarebbero astenuti dal prendere decisioni sul premio di quest’anno in quanto legati in qualche modo allo scandalo Macchiarini.

Ma tornando al premiato di quest’anno, si tratta solo del quarto giapponese a ricevere l’ambito premio, che solo in un terzo dei casi dal 1901 a oggi è stato assegnato a un ricercatore singolo come ieri.

Ma i commenti positivi sono unanimi sul meritato premio: secondo il database Pubmed, il meccanismo cellulare dell’autofagia è stato al centro di più di 4000 pubblicazioni scientifiche solo nel 2016. All’inizio degli anni 90, quando Ohsumi iniziava i suoi studi sul lievito, venivano pubblicati solo una ventina di articoli in tutto il mondo sul tema.

In sostanza si tratta di un meccanismo di riciclaggio che la cellula impiega per «mangiarsi», come indica il nome in greco, e cioè per degradare le sue componenti (proteine e organelli) per poterle poi riutilizzare e rinnovarsi.

Quando il ricercatore giapponese iniziò a occuparsene, l’argomento era considerato abbastanza di nicchia, e si pensava si trattasse poco più di un meccanismo per la gestione dei rifiuti cellulari. Quando iniziò a occuparsi dei vacuoli (nelle cellule animali queste sacche si chiamano lisosomi) del lievito, un organismo molto utilizzato in biologia e di cui era esperto, già era noto che i lisosomi contenevano enzimi in grado di digerire proteine, carboidrati e lipidi. Mettendo le cellule di lievito a digiuno, Ohsumi riusciva a stimolare l’autofagia. E riuscì così a dimostrare che il meccanismo si dava anche nel lievito, a spiegare come funzionava, e da che geni dipendeva: una sfida molto complessa da vincere perché i vacuoli sono molto piccoli e difficilmente osservabili al microscopio. I risultati vennero pubblicati in una rivista scientifica nel 1992.

A partire da questo momento, l’interesse per questo meccanismo, uno dei due pilastri per il riciclaggio cellulare assieme al proteasoma, che si occupa di degradare proteine più piccole, è cresciuto enormemente. Negli anni successivi infatti si è capito che l’efficienza di questo meccanismo è legata allo sviluppo di molte malattie come il cancro o il diabete di tipo 2, e di altre malattie legate all’invecchiamento, come l’Alzheimer o il Parkinson. Sembra che un sistema autofagico sano sia legato alla longevità e che invece uno difettoso possa peggiorare i sintomi dell’invecchiamento. Sembra anche il processo sia in grado di inibire la crescita tumorale nelle fasi precoci della malattia, ma di favorirne l’estensione una volta che il processo sia avanzato.

SCHEDA

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Yoshinori Ohsumi, che a dicembre riceverà dalle mani del re di Svezia l’ambito premio di 8 milioni di corone svedesi (circa 800mila euro), è un ricercatore che gode della fama di essere molto umile e tranquillo. Ha parlato di «un grande onore» e ha subito ringraziato i suoi studenti e i colleghi di laboratorio. «Ovviamente questo tipo di ricerca non la può fare uno da solo», ha spiegato. In una lunga intervista rilasciata nel 2012 al Journal of Cell Biology, ricorda di essere stato uno studente «frustrato»: la sua tesi di dottorato non era stata nulla di che. E dice di se stesso di «non essere competitivo» e per questo di aver cercato un tema al tempo poco popolare. Un classico, questo, di molti premi Nobel per la medicina: spesso premiano ricercatori e ricercatrici che ebbero il coraggio di esplorare campi di ricerca poco di moda. «La maggior parte dei ricercatori sceglie ambiti più popolari perché è più facile pubblicare».