Aveva ottantaquattro anni, Paolo Prodi. Nato nel 1932 a Scandiano, in provincia di Reggio Emila, professore di storia moderna all’Università di Trento, dove fu il primo rettore dal 1972 al 1978, poi a Roma e infine all’Università di Bologna, fu tra i fondatori dell’associazione culturale Il Mulino, per la cui casa editrice aveva pubblicato le sue opere maggiori. Fra i tanti lavori, si ricordano Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna (1994), Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell´Occidente (1992) e Cristianesimo e potere (2012). Nel settembre scorso, sempre per i tipi del Mulino era apparso Occidente senza utopie, firmato con Massimo Cacciari.

STORICO DELLE ISTITUZIONI – fondamentali i suoi lavori per comprendere evoluzione e conseguenze del Concilio di Trento nel rapporto plurisecolare fra potere spirituale e potere temporale – Prodi non aveva disdegnato l´impegno politico. Dossettiano, tra i suoi libri ricordiamo infatti anche Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi (Il Mulino, 2016), si era candidato per La Rete alle elezioni del 1992, subito lasciando in dissenso con la piega assunta dal movimento.

L’impegno civile di Prodi andava ben oltre la contingenza del partito. Proprio nel saggio che apre Occidente senza utopie, titolato «Profezia, utopia, democrazia», Paolo Prodi rifletteva sul dualismo istituzionale tra «potere religioso» e «potere politico» e sulla dialettica di lunga deriva che ha consentito a quanto, con una certa approssimazione, continuiamo a chiamare «occidente» di raggiungere quelle basi minime di civiltà. Quelle basi – dallo Stato di diritto alle libertà di base, fino alla democrazia – che oggi sembrano sul punto di sfaldarsi irrimediabilmente. Al contempo, proprio in apertura di questo suo ultimo saggio Prodi ricordava che «la democrazia e lo Stato di diritto occidentale non sono nati improvvisamente dalla costruzione razionale di principi costituzionali, di regole, di istituzioni e di un’autorità riconosciuta grazie ai lumi della ragione, ma sono frutto di un più lungo e complesso processo».

Dentro questo processo solo la giusta distanza dello storico che abbia al contempo la grazia di una visione che abbracci il dettaglio e il suo contesto metastorico e istituzionale – doti mai venute meno a Paolo Prodi – può davvero aiutarci a capire «come rovesciare la vulgata che da un secolo sembra semplificare e anche distorcere il pensiero di Max Weber nella contrapposizione tra potere d’origine carismatica e potere burocratico-istituzionale».

PRODI NON HA ESITATO a scandagliare questa contrapposizione, questa dialettica e persino i silenzi che hanno in qualche modo ricacciato sul fondo termini-concetti come «speranza», «utopia», «profezia» e «destino». In un lato lavoro destinato al grande pubblico, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, 2015), Prodi poneva una questione cruciale: come è stato possibile che, nel volgere di pochi decenni, la parola «rivoluzione» si caduta talmente in disuso «da diventare quasi soltanto oggetto d’antiquariato o di vignetta satirica»? Nessun linguaggio politico parla più di rivoluzione. Né la pratica. I politici parlano di «movimento», «mutamento», «riformismo» e riforme. Quando usano il termine «rivoluzione», osservava acutamente Prodi, lo usano al passato. E cosí anche i «movimenti eversivi o che vorrebbero essere tali, tutti i movimenti di opinione che lottano contro la struttura della società attuale, tutte le tendenze che vengono connotate come “anti-politica” evitano per lo piu questo termine o lo usano in modo metaforico o allusivo», mentre soltanto pochi anni fa «rivoluzione» era la parola chiave di ogni movimento di popolo.

IL MITO DELLA RIVOLUZIONE è finito. Ma, ricordava amaramente Prodi, «l’Europa, l’Occidente sono nati e cresciuti come “rivoluzione permanente”, cioé come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacita di progettare un futuro diverso sembra essere venuta meno». Perdere la capacità di dire «rivoluzione» significa perdere la possibilità per noi, europei, di avere qualcosa di nuovo e al contempo di antico da dire sul palcoscenico del mondo. Questa la grande lezione di Paolo Prodi.