Il salotto – luminosissimo – con le pareti tinte di rosso e l’angolo cottura è il cuore della casa che Simona Ghizzoni (Reggio Emilia 1977, vive a Roma) divide con Stefano, il suo compagno, conosciuto a Gaza qualche anno fa. È anche lo studio dove si ritrae, circondata da oggetti che arrivano da lontano, ricordi di tanti viaggi: il tappeto marocchino, il tessuto indiano con gli elefanti stampati che copre il divano, una grande conchiglia, la polvere di galleria nera contro invidie, malocchio e chiacchiere… Sul tavolino basso, poggiato accanto al computer, c’è il catalogo della mostra di Diane Arbus Revelations e sopra, il romanzo Dance, Dance, Dance di Murakami, che sta rileggendo.

A sottolineare la scansione del tempo, la presenza della chitarra e del pianoforte. «Il tempo è un elemento fondamentale – spiega – Sono una fotografa lenta. Il tempo permette di entrare nelle situazioni senza creare disagio a se stessi e agli altri. Quanto alla musica, vengo da un background musicale. Mi piace collegarla alla fotografia. Due linguaggi in un certo senso simili, soprattutto nell’editing e nella sequenza: c’è un ritmo, un apice, un momento di calma».

Ghizzoni, vincitrice del terzo posto nella categoria «Portraits single» del World Press Photo 2009 con il ritratto di Chiara della serie Odd Days (2006-2010) sui disturbi alimentari, è ora impegnata con la giornalista Emanuela Zuccalà nel progetto multimediale Uncut, iniziato nel 2015 (la prossima tappa sarà il Senegal) e realizzato grazie a European​ Journalism Centre (Ejc), ActionAid Italia e Zona. Affrontare e documentare il dramma della mutilazione genitale femminile, attraverso il punto di vista delle donne che si oppongono a questa pratica tradizionale, è la chiave scelta all’unisono.

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Il lavoro fotografico che raccoglie una serie di scatti realizzati in Somalia, Kenya ed Etiopia (tra i ventinove paesi dell’Africa sub-sahariana scenario in cui le donne sotto i 15 anni, stando ai dati riportati dal sito dell’Unicef, subiscono pratiche di Mgf che vanno dall’incisione all’asportazione parziale o totale dei genitali esterni) è attualmente esposto nell’ambito del festival Cortona On the Move. Fotografia in viaggio (fino al 2 ottobre).

«Uncut» è un progetto in corso con cui lei affronta l’argomento così delicato e violento della mutilazione genitale femminile. Quali sono state le maggiori difficoltà?
Questo progetto nasce da un’idea di Emanuela Zuccalà. Il fil rouge che ci unisce è quello di trattare tematiche che riguardano la donna e, in particolare, le violenze sulle donne. Dopo esserci confrontate, abbiamo deciso di concentrarci non sulla mutilazione genitale in sé, quindi non di andare a fotografare la donna o la bambina Masai che viene tagliata, ma di documentare le soluzioni, le attività e le lotte che le donne conducono nei loro paesi per cercare di porre fine a questa pratica. Nel luglio 2015 siamo partite per il primo viaggio: Somaliland. In ogni paese, abbiamo lavorato con le attiviste. Donne che fanno parte di gruppi e fondano reti al femminile che si occupano di monitorare la situazione all’interno del loro villaggio. Quando si accorgono che una famiglia sta per praticare una mutilazione, o che sta organizzando la festa in cui diverse ragazzine stanno per essere mutilate, queste associazioni si attivano in varie maniere. Sia cercando di dissuadere la famiglia dal farlo, fino all’andare di notte a prelevare le ragazzine portandole nei rifugi. La difficoltà più grande è raccontare qualcosa che non si sta facendo vedere. Attraverso chi l’ha vissuto e quello che è stato. Ma cercare di restituire anche una forma di ribellione, orgoglio, presa di coscienza di sé.
Le donne che abbiamo incontrato sono delle ribelli. Basti pensare che in Somaliland quelle che vengono mutilate sono il 98%. Quindi, chi decide di non farlo è una minoranza. Sono considerate strane, streghe, non vengono accettate dalla società. I rapporti che abbiamo avuto con loro sono stati veramente molto belli, aperti. Tra le ragioni che ci hanno portato a lavorare in questa maniera c’è stata, innanzitutto, la volontà di restituire loro dignità, forza, potenza, visto che Emanuela ed io, oltre che fotografe e videomaker ci riteniamo attiviste. Sì, volevamo restituire quell’impressione di forza. Oltretutto, il confine morale tra l’essere attivista e assistere ad una pratica di mutilazione genitale femminile non ci avrebbe permesso di rimanere impassibili.

Tecnicamente, quale motivazione l’ha spinta a scegliere di usare sia il colore che il bianco e nero?
Ero partita dall’idea di lavorare in bianco e nero. Parto sempre molto ben organizzata, in corso d’opera poi mi disorganizzo. In Somaliland siamo andate nel mese di luglio: avevo deciso di usare il bianco e nero per ragioni tecniche, ma anche perché mi sembrava una maniera di consegnare atemporalità a quello che stava succedendo. Non era una storia personale, ma di tutte le donne, qualcosa che viene tramandato alle figlie. Il secondo viaggio era in Kenya e lì, non appena sono arrivata – era l’inizio della stagione delle piogge – sono rimasta ammaliata dai colori: il verde marcio, il rosa degli abitini delle ragazzine indossati a scuola, il colorito stesso della loro carnagione quasi dorata, quei cieli grigi. Ho trovato la mia palette di colori preferita, quindi ho lavorato semplicemente seguendo l’istinto.

Un passo indietro: dalla casualità dell’incontro con una macchina fotografica rotta, trovata nella spazzatura, alla consapevolezza dell’uso del suo linguaggio…
Non era proprio nella spazzatura. Su questa storia circolano varie voci, diciamo che ho preso in prestito quella macchina fotografica. All’epoca, mentre frequentavo l’università a Bologna – avevo 19 o 20 anni – lavoravo come segretaria in uno studio di tatuaggi. Facevo anche le pulizie e un giorno, aprendo un armadietto, trovai una montagna di macchine fotografiche. Il tatuatore, proprietario dello studio, ne aveva tantissime. Appena se ne rompeva una la metteva via e ne comprava un’altra. Presi quella vecchissima Minolta manuale che feci aggiustare. Funzionava perfettamente!
In realtà, avevo già iniziato a interessarmi alla fotografia, partendo dalla Biblioteca di Reggio Emilia che avevo scoperto negli ultimi anni del liceo. Ricordo che aveva una bellissima sezione di fotografia con libri di Diane Arbus, William Klein… Allora tutti quanti, sia io che i miei amici, fotografavamo per divertimento, per ricordarci le cose. Ma non avevo un mio apparecchio: in casa c’era solo quello di mio padre. Vedere quei libri mi aveva fatto pensare che poteva esistere un altro modo di utilizzare la fotografia. Certo, quando ebbi la mia prima macchina iniziai a ritrarre gli amici e a immortalare i viaggi che riuscivo a fare, ma andavo anche a visitare moltissime mostre. Cominciai a nutrire un interesse anche verso la fotografia dal punto di vista teorico. Infatti, poi, mi sono laureata in Storia della Fotografia e pensavo pure di fare un dottorato in quella materia.
Nel frattempo avevo iniziato a studiare la materia: era diventata qualcosa che cominciava ad appartenermi di più. Finché, tra i vari incontri un’estate, mentre ero assistente al Toscana Photographic Workshop, mi ritrovai all’improvviso di fronte ad alcuni mostri sacri della fotografia: David Alan Harvey, Antonin Kratochvil, Antoine D’Agata… Cominciai a pensare veramente a cosa fosse un progetto. Il primo lo realizzai con una Holga nel 2006, si trattava di un piccolo reportage di viaggio a Sarajevo, a dieci anni dalla fine della guerra. Facevo street photography, come fosse una sorta di diario. Ma poi, una volta laureata, pur avendo fatto richiesta di dottorato, presi a lavorare.

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Lei ha citato Diane Arbus che con Sarah Moon e Francesca Woodman sono spesso associate al suo nome…
Sono sicuramente tutte e tre presenti nel mio lavoro. Vengo da quel tipo di sensibilità, ma trovare un proprio linguaggio quando ci si rispecchia così tanto è stato veramente difficile. Ci sto ancora lavorando lentamente. Il mio sogno sarebbe quello di riuscire a non perdere gli elementi migliori di ciascuna delle tre, quelli che sento più vicini, riuscendo a fonderli in un linguaggio più moderno. Di Diane Arbus mi piace quella sorta di autenticità, di non camuffamento che, in realtà non ho, perché non riuscirei a fare foto che non rendano la dignità delle persone che ho incontrato. Nel lavoro di Arbus c’è una verità senza filtri che delle volte può risultare anche repellente. Francesca Woodman appartiene più ai miei anni giovanili. Nel suo lavoro c’è quella sensazione di solitudine in cui mi ritrovavo, che viviamo tutti in maniera diversa, ma che lei ha saputo esemplificare con grande pertinenza. Coglievo questa sua figura giovane, meravigliosa in luoghi non confortevoli, vi leggevo una sensazione dell’anima. Nella mia adolescenza – come forse sarà noto – soffrivo di disturbi alimentari. Non mi sentivo un corpo giovane e forte, non lo vedevo. Mi percepivo come fossi evanescente, immersa in un ambiente che stava andando a male. Sarah Moon, infine, per la sua ricerca ossessiva, sia sul linguaggio che sui soggetti. La ripetizione, il concentrarsi un’intera vita su un certo tipo di immaginario che è quello, appunto, delle proprie ossessioni, del proprio intimo, continua ad essere fonte d’ispirazione per tutta la parte che riguarda il mio progetto personale, Rayuela. Un puzzle e potrebbe andare avanti all’infinito. Anche per questo l’ho chiamato Rayuela che, oltre al significato del gioco in sé, è il titolo del romanzo di Julio Cortázar e si può leggere, sia dal primo all’ultimo capitolo che in un altro ordine, saltando liberamente di capitolo in capitolo. Non ha una sequenza lineare, ma vari ordini immaginari.

Alina Marazzi, la regista con cui ho collaborato anni fa (Tutto parla di te, 2012, ndr.), persona a cui sono molto legata, mi ha detto che in questo lavoro tutte le donne che ritraggo mi somigliano moltissimo. Non ci avevo mai fatto caso, ma è proprio così. La mia presenza è in parte per vedere a che punto sono della mia vita, a livello psicologico e, certe volte, anche fisico, malgrado tenda molto a mascherarmi e nascondermi. I miei autoritratti sono più una rappresentazione di uno stato d’animo.