Con uno stile ossessivo, dove le stesse parole ritornano per scandire in modo maniacale lo smarrimento e l’incertezza, ma anche per trasformarsi in suono e ritmo, David Peace si interroga da tempo sulle tracce che le grandi trasformazioni lasciano in ciascuno di noi, su quell’indicibile senso di perdita che portano necessariamente con sé. Osserva ben oltre il bordo dell’abisso, o sceglie in modo deliberato di precipitarvi dentro, il fluire degli avvenimenti fino a farne materia palpitante delle sue pagine, intrise di sangue, sudore, lacrime.

Come altrettanti riti di passaggio, i suoi romanzi scandiscono la fine di una stagione, il mutare di un’epoca che si consuma mietendo inesorabilmente nuove vittime. Lo ha fatto, all’inizio della sua carriera, celebrando il tramonto dell’identità operaia del nord dell’Inghilterra e la definitiva sconfitta della working class, incarnata dall’ultimo storico sciopero dei minatori, ad opera di Margaret Thatcher. Ma, per molti versi, sembra averlo voluto fare anche con delle storie che raccontano di un calcio che non c’è più: quello inglese degli anni Settanta che per quanto infestato di hooligans e razzismo non aveva ancora perso il suo legame sentimentale con i tifosi e il territorio. Infine, paradossalmente, la patria del suo volontario esilio, il Giappone, gli ha offerto la possibilità di farlo con il progetto di una trilogia dedicata all’immediato secondo dopoguerra, in cui descrivere le inquietudini e le ombre di un paese che non aveva ancora fatto i conti con i propri demoni.

Un capitolo, quest’ultimo, rimasto al momento incompiuto dopo l’uscita dei primi due romanzi, ma che Peace non ha mai davvero abbandonato, come testimonia Fantasma (pp. 100, euro 17), la raccolta appena pubblicata da il Saggiatore in cui lo scrittore inglese ha riunito quattro racconti – uno dei quali, Dopo il filo, prima del filo del tutto inedito anche in lingua inglese – e un breve saggio dedicati, o meglio ispirati allo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa, morto suicida nel 1927, spesso paragonato a Kafka e considerato uno dei riferimenti intellettuali più influenti per le successive generazioni di autori del paese. Prendendo a prestito la citazione di un critico, Peace descrive quella di Akutagawa come «la letteratura della sconfitta», permeata da un senso di perdita e di inadeguatezza. Spiega come in Vita di uno stolto, una sorta di autobiografia dell’autore giapponese, «ogni riga è permeata di morte e sconfitta».

Ma la sofferenza dell’intellettuale non è aliena dal disfacimento di un mondo: «Akutagawa morì sei mesi dopo la scomparsa dell’imperatore Taisho e l’inizio dell’Era Showa. Per molti la sua morte rappresenta non solo la fine di un’era ma la vera sconfitta dell’intellettualismo giapponese». Iniziava infatti per il Giappone la stagione che gli storici locali hanno ribattezzato come «fascismo dell’età imperiale» che avrebbe portato alle guerre di sterminio in tutta l’Asia e alla stessa Seconda guerra mondiale. Riflettendo da scrittore sulla figura di Akutagawa, David Peace non si accontenta però soltanto di esplorare il buio in fondo all’anima, va oltre quella capacità di scandagliare la paura restituendole un senso, che in passato gli è valsa l’etichetta di nuovo maestro del noir, spesso affiancato a James Ellroy, per indagare i confini e il significato stesso della letteratura. Quando ha iniziato a scrivere diceva di essere ossessionato dalle canzoni dei Joy Division, da quell’incedere piacevole che celava però un cuore velenoso, oggi che è uno dei grandi protagonisti della narrativa internazionale riesce a raccontare nella forma apparente di una favola per bambini, resa nelle presentazioni svolte nei giorni scorsi a Roma e Milano come un vero e proprio reading, perfino la tragedia di Fukushima. Del resto, per lui, «scrivere è porre domande, non certo offrire risposte».

Un libro di racconti ispirati ad uno scrittore giapponese degli anni Venti: cosa rappresenta per lei Akutagawa?

Ho scoperto Akutagawa quando mi sono trasferito a Tokio nel 1994 attraverso alcune traduzioni inglesi dei suoi racconti e posso dire che in qualche modo le sue pagine mi hanno accompagnato per tutti questi anni anni, facendomi quasi da guida in un mondo nuovo. L’ampiezza e la gamma del lavoro di Akutagawa, dalla rielaborazione degli antichi racconti cinesi e giapponesi attraverso la pungente satira di Kappa, fino alla sua ultima e straziante opera biografica, La ruota dentata, è al tempo stesso sorprendente e unica. Mi hanno inoltre sempre incuriosito moltissimo anche la sua biografia e l’epoca nel quale è vissuto: quello di Akutagawa è stato infatti uno dei periodi più turbolenti nella storia del Giappone moderno. Poi, ho tratto anche ispirazione dal suo stile. Borges spiegava che Edgar Allan Poe non ha solo inventato il genere poliziesco, ma anche un tipo di lettore nuovo e speciale. Io ritengo che Akutagawa abbia fatto la stessa cosa con il racconto Nel bosco, nel quale propone la prospettiva di più personaggi su una medesima vicenda. Grazie alla versione del racconto proposta da Kurosawa nel film Rashomon, questo metodo è diventato molto noto. E io stesso ne ho tratto ispirazione per le dodici diverse voci narranti di Tokio città occupata.

Ma quale è il filo che lega «Fantasma» alle sue opere precedenti?

Al centro dei racconti c’è un personaggio che cerca di ricostruire la propria identità. È perseguitato dal passato e preoccupatissimo ed angosciato dal futuro. Si tratta di una serie di vicende e situazioni che lo circondano e lo minacciano e che descrivono personalità spezzate, divise e tormentate. Credo che la traccia dei miei scritti precedenti sia da ricercarsi in questo. Oltre al fatto che scrivendo continuo a pormi sempre nuovi interrogativi, senza offrire mai una risposta definitiva.

Vivere in Giappone ha cambiato la prospettiva del suo sguardo?

In realtà si potrebbe pensare ad un apparente paradosso, nel senso che anche tutti i romanzi del red riding quartet li ho scritto, a partire dalla fine degli anni Novanta, quando già vivevo a Tokio. Anzi, si può dire che proprio grazie a questa distanza fisica da quelli che erano stati poi i luoghi della mia infanzia e giovinezza, sono riuscito scrivere quei romanzi: se fossi rimasto in Gran Bretagna probabilmente non ne sarei mai stato capace. Mi sono trasferito in Giappone nel 1994, ma ho continuato a scrivere romanzi ambientati nel nord dell’Inghilterra. Mi ci sono voluti quindici anni perché riuscissi a scrivere di Tokio, e per altro non della città in cui vivo, ma di quella della fine della Seconda guerra mondiale. Ho cercato di raccontare il passato della città in cui vivo oggi e per questa via di prendere per quanto possibile commiato anche dal mio stesso passato.

«Il maledetto United» e «Red or Dead» sono tra i romanzi più belli che siano stati scritti sul calcio. Ma raccontano rispettivamente del Leeds di Brian Clough a metà degli anni Settanta e del Liverpool di Bill Shankly di un’epoca ancora anteriore. Il cosiddetto «calcio moderno» che effetto le fa?

Diciamo che continuo a seguire il calcio perché fa parte della routine della mia vita. Si tratta di una sorta di abitudine consolidata che procede in qualche modo da sola. Però è chiaro che mi riesce difficile provare le stesse cose, lo stesso calore. Il calcio di oggi mi sembra si basi sul culto dell’individualismo più sfrenato, una dimensione in cui si perde del tutto il valore del collettivo, dell’impresa comune. Che invece è esattamente il contesto nel quale mi sono mosso per le mie storie. Ad esempio in Red or dead ciò su cui volevo richiamare l’attenzione è stato proprio il gran lavoro fatto da Bill Shankly quando è arrivato come allenatore al Liverpool alla fine degli anni Cinquanta. Il segreto del successo di Shankly risiedeva nella sua capacità di aver saputo creare una comunità nella e intorno alla squadra ed è stata questa la base su cui il Liverpool ha poi costruito anche in seguito così tanti successi.

Nei suoi libri ambientati in Gran Bretagna lei ha raccontato in molti modi come questo senso della comunità sia andato perduto, a partire dalla condizione materiale e dall’identità stessa della working class. Oggi come guarda alla situazione britannica, tra l’ascesa di una figura innovativa come quella di Corbyn e il clima plumbeo che regna nel paese che si prepara al voto sulla Brexit?

In effetti la situazione è molto difficile. I sindacati non si sono mai ripresi del tutto dalle batoste prese negli anni Ottanta e il peso della working class non ha fatto che scemare. Personalmente, come iscritto al Labour, ho votato per Jeremy Corbyn e credo sia la persona giusta per ridare una prospettiva di sinistra a questo partito, che resta per altro molto diviso al proprio interno, anche se non sono così sicuro che il paese sia in grado di comprendere appieno questa nuova linea e che la gente sia pronta a farsi trascinare per scacciare David Cameron dal potere. Il paese si trova infatti in una situazione molto difficile, la società britannica è come se fosse da anni e anni sempre più ripiegata su se stessa. La questione del referendum sull’Europa, come il clima di ostilità che è andato montando nei confronti degli immigrati, sono il frutto di una specie di egocentrismo sociale e politico che è cresciuto nel corso del tempo, per capirci dall’epoca della Thatcher, passando per il governo di Tony Blair, fino all’attuale leadership conservatrice. Un’attitudine delle politica che sembra preoccuparsi unicamente dei destini della Gran Bretagna e che spinge le persone a dimenticarsi di quanti altri problemi ci siano intorno a loro, sia fuori che all’interno stesso del paese. Credo che da questo punto di vista le cose continueranno ad essere molto difficili per la sinistra.

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SCHEDA:

Nato nella regione operaia del West Yorkshire nel 1967 e considerato a lungo come uno dei maggiori interpreti del nuovo noir europeo, David Peace si è imposto all’attenzione internazionale grazie ai romanzi della quadrilogia del «red riding quartet» (1974, 1977, 1980, 1983), usciti originariamente oltre un decennio fa e in corso di nuova pubblicazione da parte del suo editore italiano, il Saggiatore, che descrivono le gesta del cosiddetto squartatore dello Yorkshire nella cupa atmosfera britannica dell’era Thatcher e da cui nel 2009 è stata tratta una miniserie per Channel 4. Un ciclo che conta una sorta di complemento in «GB84» (2006), dedicato allo storico ultimo grande sciopero dei minatori. Esplorano la cultura della working class, e in particolare il mondo del calcio, «Il maledetto United» (2009) e «Red or dead» (2014). Trasferitosi in Giappone nel 1994, Peace ha inaugurato nel 2007 una trilogia, di cui per il momento sono usciti i due primi capitoli, «Tokio anno zero» (2007) e «Tokio città occupata» (2010), dedicati alla situazione della capitale nipponica all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Nella raccolta di racconti del 2013 «Terremoti», compariva già il riferimento ad Akutagawa. Il suo ultimo libro, «Fantasma» è stato presentato nei giorni scorsi nel nostro paese.