Della vita di Marco Polo, il grande viaggiatore veneziano, sappiamo poco e a meno di un qualche miracoloso ritrovamento documentario (e sono miracoli che pur succedono, quando si frequentano gli archivi) continueremo a saperne poco. Al riguardo, ci restano sì e no una decina di carte sicure, tra cui un testamento e una lista di beni che include alcune cose portate dall’Oriente. Al contrario sappiamo, o ci sembra di sapere, moltissime cose della sua opera, quella che gli italiani conoscono col generico, insicuro e convenzionale titolo Il Milione e che pare sia uno dei libri più letti al mondo.
Non è una biografia
Stretta in questo paradosso – un autore semignoto, un’opera arcinota -, la «questione poliana» è ormai da molti decenni una faccenda intricatissima che nulla ha da invidiare in complessità alla «questione omerica» e che ha fatto versare i rituali fiumi d’inchiostro e riempito i non meno rituali chilometri di scaffali. Ora, non vogliamo certo sostenere che il Marco Polo di Marina Montesano (Salerno Edizioni, 2014, pp. 333, euro 22) sia proprio la spada di Alessandro in grado di recidere questa specie di «nodo di Gordio» della nostra letteratura medievale e di tutta la filologia contemporanea: ma certo ci va vicino. A onta del titolo, non è una biografia del mercante e viaggiatore veneziano, per quanto gli ingredienti biografici vi siano tutti. E non è nemmeno un’esposizione e/o una «rivisitazione critica» della sua opera, tantopiù che uno dei punti più affascinanti e divertenti di questo libro è proprio la decostruzione di quello che impropriamente si considera il suo titolo, e dell’identità del suo autore, o magari dei suoi coautori. E, badate, siamo dinanzi a tutt’altro che a un testo inesistente o fittizio: al contrario, siamo dinanzi a un libro che esiste fin troppo; magari fino a presentarsi come ben più di uno. Anzi, qui sta la chiave del puzzle.

Marina Montesano, docente nell’Università di Messina e in quella del San Raffaele di Milano, è una medievista con una buona formazione di storica attenta alle questioni sia filologiche sia antropologiche, è ben conosciuta – oltre che come elzevirista de il manifesto – anche per i suoi studi sulla cristianizzazione dell’Europa, sulla cultura folklorica medievale e sulla stregoneria. Allieva di Anthony Molho alla Brown University del Rhode Island, ha al suo attivo una densa ricerca storico-antropologica sulla novellistica trecentesca toscana: e già questo la predisponeva da tempo all’incontro con l’opera poliana, o quanto meno con le sue versioni appunto in volgare toscano. Insomma, sembrava la candidata ideale per scrivere una vita di Marco Polo da inserire nella prestigiosa collana «Profili» a suo tempo fondata da Luigi Firpo e diretta adesso da Giuseppe Galasso, Andrea Giardina e Gherardo Ortalli. Una codirezione di tre studiosi tanto illustri, ma anche così diversi tra loro per indirizzi scientifici, era fatta apposta – e va detto – per accogliere una monografia come questa, ch’è tutto meno che historically correct.

Perché, in realtà, Montesano sembra dimostrare che: primo, una biografia di Marco Polo, poche e nemmeno sempre rilevanti notizie documentaristicamente «sicure» a parte, non esiste se non ricavabile in filigrana dalla sua opera; secondo, non è affatto certo che pure quest’opera esista, o meglio che sia sul serio «sua» (anche se, alla fine, si scopre che l’autrice sostiene – fieramente – appunto la paternità poliana di qualcosa che invero esiste eccome).
Un puzzle di fonti
Proviamo a spiegarci meglio. L’assunto di partenza di questa ricerca è un totale rovesciamento del canone stabilito fino dal 1954 da Arsenio Frugoni nel suo fondamentale Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII. Apprestandosi a una biografia del noto ma enigmatico riformatore dell’età del Barbarossa, Frugoni insisteva con argomenti del tutto convincenti e insuperati sul fatto che la vita di qualcuno è irricostruibile attraverso il patchwork delle fonti che lo riguardano, come invece si fa troppo spesso. Verissimo, senonché, obietta in modo del tutto convincente Marina Montesano, «il caso del Milione sembra più attinante all’apologo dei tre anelli: nessuno sa qual è il vero, ma probabilmente c’è una parte di verità in ognuno di essi. Giustapporli sarebbe errato, ma sfruttarne le varianti è essenziale, in assenza di un testo poliano autografo, per ricostruire la ricchezza della fonte».

Difatti, non solo non sappiamo se davvero e fino a che punto alla stesura del libro contribuì un romanziere pisano compagno di prigionia di Marco a Genova, Rustichello; ma ignoriamo anche in quale idioma o miscuglio di idiomi si svolse la dettatura del testo da parte di quegli a questi, o se si trattò piuttosto di un dialogo-collaborazione tra i due. L’autografo rustichelliano non esiste; sappiamo che esso fu redatto in francoitaliano, ma noi ne abbiamo altresì testi in francese d’oil, in veneziano, in toscano e in altri volgari; nonché almeno due versioni latine che paiono molto importanti.
Bestiari fantastici
L’autrice, giocando sapientemente e abilmente tra queste varianti sul rispettivo valore delle quali siamo incerti, ci propone alla fine una sapiente, ricchissima decostruzione testuale che approda auerbachianamente a una proposta d’ipotetica ricostruzione ipertestuale. Eric Auerbach ci ha difatti insegnato che all’unicità di un testo – e in questo caso l’Urtext ci è ignoto e possiamo considerarlo irrecuperabile – può corrispondere una pluralità di opere, in questo caso le singole versioni.

Con queste premesse, l’originale rilettura dell’opera poliana è letteralmente indescrivibile, nel senso etimologico del termine. Questo bellissimo libro va letto tutto, da cima a fondo. Dall’attento, ricchissimo panorama di un macrocontinente eurasiatico medievale conteso tra nomadi e sedentari al mosaico etnoreligioso dell’impero mongolo fino all’indagine approfondita sulle culture sciamaniche con sconvolgenti scoperte, come il significato recondito dei suicidi rituali e del rito del «matrimonio fra giovani morti». E ancora i costumi sessuali – su cui Marco insiste con un’attenzione degna di un Paolo Mantegazza -, le fontane di fuoco, le leggende del «Prete Gianni» e del «Veglio della Montagna», il bestiario realistico (con la demitizzazione dello splendido unicorno che diventa un brutto e grosso rinoceronte) che contiene pagine inaspettate, come una caccia alla balena da far concorrenza a Herman Melville e descrizioni veridiche sì, ma da far invidia ai bestiari fantastici (andatevi a scoprire che cosa sono i «papioni» e i «gatti-pauli»); e poi la fascinazione per le città di una Cina già allora popolatissima e ricca, per l’India dei misteri e della magia, per un’economia tanto più «moderna» (e non sempre in modo positivo: si vedano le osservazioni a proposito della carta montea) rispetto a quella occidentale. Insomma, una ricerca rigorosamente scientifica, un apparato erudito da far paura (ma, tranquillizzatevi, relegato in note a fine volume) e una lettura affascinante e divertente. Una volta tanto, diciamolo: un bel libro.