L’ultimo bilancio del Comune di Roma, come i precedenti, tradisce i limiti che l’amministrazione guidata da Ignazio Marino ha manifestato sin dall’inizio nel realizzare le proprie ambizioni di riforma. In questi due anni si è spesso cercato di colmare con annunci l’assenza di proposte e obiettivi, che in una situazione come quella romana passano inevitabilmente con l’apertura di conflitti con i poteri conservatori. È proprio nel vuoto della politica che mette radici il malaffare. Lo hanno dimostrato inchieste giudiziarie, più o meno recenti, smentendo al tempo stesso l’argomento a cui quasi sempre si ricorre per giustificare la mancanza di azione di governo: «Non ci sono soldi».

I soldi, come si è visto, c’erano: per il ciclo dei rifiuti, per il trasporto pubblico, per l’accoglienza ai migranti, per l’emergenza abitativa, per la gestione dei campi rom. Ma finora sono stati sperperati con politiche fallimentari, che in molti casi hanno visto l’amministrazione della città al servizio di istanze corporative e clientele trasversali.

Ad esempio, quante risorse si sarebbero liberate per la mobilità romana se, invece di asservirsi alle imprese che da anni lucrano sul cantiere infinito della Metro C, il Comune ci avesse dato ascolto respingendo le richieste economiche aggiuntive avanzate dal contraente generale rispetto all’appalto (dal valore di 3 miliardi di euro) per il completamento della seconda tratta? Se non avesse dovuto ricapitalizzare – come sta nuovamente facendo con un’operazione di dubbia legittimità – l’ormai fallita Atac? È serio sostenere – usando in questo caso gli argomenti di Noam Chomsky – che si è prosciugata un’azienda fino a renderla privatizzabile, quando essa ha totalizzato da sola più della metà delle perdite dell’intero settore nazionale, come ha evidenziato l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli? Cosa rappresenta il bene comune: la gestione di Atac, o la qualità del servizio? Non si può più raccontare alle persone che conoscono le metropolitane e gli autobus delle città europee che in quelle realtà, dove i servizi di trasporto sono stati messi a gara, i cittadini hanno minori diritti e potere di controllo.

Non esiste oggi dichiarazione di guerra più coraggiosa al «regime» dei poteri economico-politici conservatori che quella di dare ai cittadini potere di controllo dei servizi. Una sfida che non trova preparato il Pd renziano, che rischia solo di creare un sistema di potere surrogato del precedente (la sfida olimpionica affidata ai dinosauri della gestione grandi eventi fa pensare che non si tratti neppure del tutto di regime-change), né la sinistra socialdemocratica rassegnata al governo del potere pubblico (il neo-assessore al bilancio Causi speriamo faccia tesoro dell’esperienza dei fallimentari investimenti del «Modello Roma» veltroniano), né tantomeno la «sinistra-bio» impegnata nella difesa del proprio orticello. Per non parlare della destra conservatrice. O dei movimenti nazional-qualunquisti alla Grillo o Salvini, al servizio delle stesse caste che fingono di combattere: la loro funzione storica è creare il capro espiatorio, distraendo un ceto trasversale dalla lotta contro i soggetti responsabili dell’inquinamento della spesa pubblica e della mancanza di innovazione.
Solo una forza che accetti la sfida, con obiettivi e una visione strategica chiara e indipendente, nell’epoca della share economy, dell’efficientamento e l’innovazione del ruolo dello stato e la capacità di garantire servizi per affermare libertà e diritti, antichi e nuovi, può gestire le sfide di una metropoli del 21° secolo. Nella città si giocano le sfide più importanti e si vivono le ricadute delle scelte politiche. Ed è anche dalle metropoli europee, dalla loro capacità di condividere le esperienze più felici per migliorare la qualità della vita, che può ripartire il senso di una Europa comune ormai quasi perduto.