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Martin Bora è un eroe improbabile. Un detective-soldato che da ufficiale dell’intelligence della Wehrmach, l’Abwehr, indaga su crimini ordinari mentre intorno a lui ha luogo il più terribile omicidio di massa della storia d’Europa. Aristocratico, colto, militare per tradizione più che per scelta, nazista riluttante all’ascesa al potere di Hitler, si trasformerà progressivamente in un oppositore del regime mano a mano che l’ideologia nazionalsocialista manterrà le sue promesse di morte dando il via alla pulizia etnica e alla «Soluzione finale» nei territori occupati dalle armate tedesche. Dalla Guerra di Spagna, dove dovrà indagare sull’assassinio di Federico Garcia Lorca compiuto dalle milizie fasciste, fino all’arresto da parte delle SS sul finire del 1944 per il sospetto di aver aiutato alcuni ebrei italiani, Bora ha fin qui consumato in una decina di inchieste che accompagnano la genesi, lo sviluppo e l’esito della Seconda guerra mondiale, le sue sorti personali insieme a quello dell’intero continente. Ripercorrendo, ma nell’inedita prospettiva dei canoni del romanzo poliziesco, luoghi divenuti tristemente celebri per battaglie e stragi, ha incontrato personaggi storici realmente esistiti e fatto emergere anche le ferite interiori che il conflitto porta inevitabilmente con sé, fino a definire una sorta di rilettura in chiave noir degli eventi bellici e delle loro conseguenze. Contraddittorio testimone delle pagine più tragiche del Novecento, sospeso tra gli obblighi propri al «mestiere delle armi» e l’irriducibilità della sua coscienza di uomo, quello creato dalla scrittrice Ben Pastor, italiana da moltissimi anni trasferitasi negli Stati Uniti, è forse uno dei personaggi più intriganti e bizzarri apparsi nel giallo dell’ultimo decennio. Una figura che può suscitare sentimenti contrastanti, ma che, in ogni caso, non può lasciare indifferenti.

«L’uomo giusto nella divisa sbagliata», questa la definizione di Martin Bora da lei offerta alcuni anni fa. Perché scegliere proprio un ufficiale della Wehrmacht come protagonista di una serie di romanzi gialli?

Ci sono due modi, complementari, per rispondere a questa domanda. Da un lato, se si guarda al panorama della letteratura poliziesca internazionale è raro incontrare personaggi di investigatori che abbiano una qualche peculiarità che li distingua gli uni dagli altri: da questo punto di vista, la figura di un ufficiale tedesco della Seconda guerra mondiale può fare la differenza. D’altra parte, ed è questa la ragione che mi sta più a cuore e che è risultata determinante quindici anni fa quando ho scritto il primo libro con Bora come protagonista, è una sorta di sfida. Volevo creare un personaggio che si muovesse lungo il confine incerto tra obbedienza e morale, la cui divisa evocasse il «male assoluto» del Novecento, ma che potesse incarnare proprio per questo anche la possibilità che i singoli hanno sempre di fare scelte controcorrenti, fino a mettere a rischio la propria vita per salvare quella degli altri. Martin Bora è infatti un soldato tedesco che, per quanto gli è possibile, si oppone al nazismo.

Il profilo di Bora è ispirato esplicitamente ad un personaggio storico reale, quel Claus von Stauffenberg che fu, insieme al altri ufficiali di alto rango, tra i responsabili del fallito attentato contro Hitler del 20 luglio del 1944. Cosa l’ha colpita di più nella vicenda di quest’uomo che pagherà con la vita il suo tentativo di eliminare il führer?

Una sorta di paradosso. Scrivendo da sempre di soldati e di temi come la guerra e la vita militare spesso presentati come appannaggio di un universo maschile, mi sono infatti resa conto che von Stauffenberg, e ancor di più Bora, hanno molto a che fare con l’idea della «resistenza dall’interno» inscritta invece nell’universo femminile. In questo caso, sono uomini che cercano di stravolgere o di far crollare dall’interno un sistema oppressivo basato sulla violenza e sulla repressione, facendo ricorso ad un lavoro paziente e quotidiano, all’arte di minare giorno dopo giorno le basi stesse della dittatura. Nella realtà storica von Stauffenberg inseguì anche l’exploit violento, ma non ebbe fortuna. In nessun romanzo Bora prenderà parte all’attentato contro Hitler, sfortunata testimonianza della piccola opposizione al nazismo che era cresciuta fin nei vertici dell’esercito tedesco. Preferirà proseguire con dedizione l’opera di resistenza interna che era stata propria anche di quei congiurati, poi tutti uccisi per ordine di Hitler.

Bora si muove all’interno di un’apparente dicotomia tra la fedeltà al suo giuramento e i richiami della sua coscienza. L’ufficiale indaga su crimini a prima vista banali mentre intorno a lui si celebra l’assassinio di massa: l’apparente distanza con l’orrore gli consente di denunciare l’Olocausto. Di romanzo in romanzo la sua opposizione al nazismo si fa più concreta…

È questo il cuore del personaggio, il centro della tensione morale che lo muove e che si farà sempre più lacerante mano a mano che la guerra e i suoi orrori avanzano. Volevo descrivere esattamente questa condizione: una persona che ha giurato, un soldato che ha delle regole a cui attenersi e allo stesso tempo però si considera libero da tali regole quando si pone ad un livello più alto, sul piano della giustizia e dell’etica. In questo senso, Bora è combattuto, deve misurarsi con la necessità di disobbedire agli ordini e con l’indifferenza o incapacità di prendere una posizione costi quel che costi. È un idealista che paga perciò cara ogni sua decisione, ma proprio per questo le sue scelte, in controtendenza rispetto all’epoca e alla divisa che indossa, sono più sofferte rispetto a chi non si è trovato mai a dover decidere tra il bene e il male. Allo stesso modo testimonia il valore di quella cultura tedesca, che era spesso anche ebraica, che la guerra e il nazismo sono quasi riusciti a cancellare. Bora è un testimone di un’alternativa morale che gli eventi resero vana.

In uno dei romanzi della serie di Bora, «Luna bugiarda», lei si definisce come una ragazza degli anni Cinquanta che attraverso i suoi libri ha pagato per certi versi un debito alle tante domande rimaste inevase legate alla propria storia familiare e a quell’Italia del secondo dopoguerra che sembrava avere fin troppa fretta di dimenticare le tragedie patite e di cui era stata protagonista.

La mia parte europea, tutto ciò che ho vissuto prima di trasferirmi negli Stati Uniti e iniziare un nuovo capitolo della mia vita, è ben conscia di dovere molto a molti: alla mia famiglia ma anche ai tanti che hanno pagato con la prigionia e con le loro sofferenze il prezzo della nostra libertà. Mia madre veniva da una famiglia di ebrei, abbiamo avuto anche un parente ucciso alle Fosse Ardeatine. Perciò è vero che come poche altre generazioni in passato, la mia ha davvero un grosso debito nei confronti di quella che l’ha preceduta; un debito che non sarà facilmente pagato, possiamo solo illuderci di poterlo fare.

Quanto alla mia esperienza di vita negli Stati Uniti, scrivo ormai da molti anni in inglese e il contesto letterario in cui mi muovo è profondamente anglofono. Mi sembra di poter affermare che gli Stati Uniti sono riusciti a venire a patti in maniera molto interessante con le lacerazioni della guerra. Penso per esempio alla Guerra di Secessione che per gli americani, malgrado siano passati oltre 150 anni, è storia di ieri come illustrato dalle recenti polemiche sull’uso della bandiera confederata in alcuni stati del vecchio Sud. Eppure, malgrado la ferita fu profonda e segnò in modo determinante lo sviluppo del paese, negli Stati Uniti, senza rinunciare alle ragioni degli uni e ai torti degli altri, con quella memoria si è fatto i conti. Una cosa che non è accaduta in Europa, e nel nostro paese, a proposito della Seconda guerra mondiale.

Tra i suoi riferimenti letterari lei cita spesso Simenon e si ha in effetti l’impressione che, sull’esempio dello scrittore belga, nelle indagini di Martin Bora, a cominciare dalla stessa personalità dell’ufficiale-detective, sia soprattutto la voglia di descrivere l’individuo senza maschere, lo svelare il mistero della natura umana, il vero giallo che si intende risolvere. È così?

Non posso che essere lusingata da questo accostamento. Considero infatti Simenon non solo «il maestro» in senso assoluto, nella letteratura poliziesca e non soltanto in quella, ma anche un maestro dello stile capace di scrivere romanzi complessi dove non c’è neppure una sola parola fuori posto. Quello che si ricorda di più di Simenon è il clima, l’atmosfera, il contesto psicologico in cui il crimine ha avuto luogo. Sono le sue brevi frasi che dischiudono un mondo al lettore; un universo a sua volta popolato davvero di personaggi per così dire nudi perché in loro molto poco è velato, nascosto allo sguardo dello scrittore. Maigret è sempre descritto come un uomo grosso, quasi ingombrante, ma è tuttavia un uomo che rivela una enorme sensibilità. Sembrerebbe quasi non essere la persona più adatta per fare il poliziotto. E mi chiedo come abbia fatto Simenon a creare un personaggio che sia così solido all’apparenza e allo stesso tempo così fluido e così assolutamente sensibile e capace di cogliere la realtà profonda degli altri. Non vorrei mai essere interrogata da Maigret, non potrei nascondergli niente.