Come da copione. Il Senato brasiliano ha fatto un altro passo verso la destituzione della presidente Dilma Rousseff. Il voto (a maggioranza semplice) degli 81 senatori è stato di 59 favorevoli all’impeachment e 21 contrari: una maggioranza di poco inferiore a quella prevista nei giorni precedenti dai commentatori governativi, convinti di avere ormai in tasca il risultato finale. L’ultimo round dovrebbe giocarsi il 29, con un voto a maggioranza dei 2/3, e potrebbe durare cinque giorni. Dilma è accusata di irregolarità fiscali per aver «truccato» il bilancio facendosi anticipare i soldi dalle banche per coprire alcuni piani sociali (la cosiddetta «pedalata fiscale»).

Rousseff ha sempre negato ogni addebito e nel corso del processo sono stati smontati tre dei cinque capi d’accusa che definivano il «crimine di responsabilità». D’altro canto, quella della «pedalata fiscale» è una prassi così consolidata, a tutti i livelli di governo (centrale, federale e municipale), che avrebbe dovuto portare alla destituzione di tutti i presidenti che l’hanno preceduta dopo il ritorno alla democrazia (1985).

In questo caso, però, è servita da innesco per un attacco politico, mediatico e giudiziario di grandi proporzioni: per eliminare dal governo il Partito dei lavoratori (Pt) e il corredo di garanzie che, pur con tutti i cedimenti al grande capitale, era riuscito a realizzare in 13 anni di governo. Per riposizionare il Brasile in un arco di alleanze più consone al ritorno in forze delle destre in America latina e a un impiego delle risorse a favore delle classi dominanti.

Dilma è stata sospesa dall’incarico il 12 maggio e sostituita dal suo vice Michel Temer. In pochi mesi, il governo a interim – un gabinetto formato da tutti uomini bianchi, danarosi (e in gran parte corrotti) in un paese a maggioranza meticcia e afrodiscendente – sta passando come uno schiacciasassi sui diritti e sulle garanzie. Il processo di privatizzazione dei servizi pubblici avanza. E’ cominciata la svendita della petrolifera di Stato Petrobras nella grande zona estrattiva del pre-sal, e sta per calare la scure su salari e servizi pubblici preannunciata dal progetto di Legge complementare. Mentre il Senato discuteva l’impeachment in una maratona durata 16 ore, i movimenti manifestavano contro questo progetto di legge e contro il golpe parlamentare in molte città del Brasile: al grido di «Fora Temer». Questo- scrivono le organizzazioni che compongono il Fronte Brasile Popolare «non è solo un golpe contro una presidente eletta, ma anche contro la volontà di oltre 54 milioni di elettori, che verrà calpestata insieme alla Costituzione».

Il voto contro Dilma ha dato forza al rapporto presentato dal senatore Antonio Anastasia, del Partito della socialdemocrazia brasiliana (Psdb), alleato di Temer, il quale ha sostenuto che Rousseff ha violato la costituzione autorizzando movimenti fiscali senza l’approvazione del Congresso. Una questione, oltretutto, ancora in sospeso. A ottobre del 2015, la Corte dei conti – per la prima volta dal 1937 – non aveva autorizzato il bilancio del governo, fornendo un argomento chiave alle trame golpiste. Da allora, resta però ancora pendente il ricorso nel merito presentato dai legali di Rousseff. Per questo, alcuni senatori alleati del Pt hanno chiesto al presidente della Corte suprema, il ministro Ricardo Lewandowski che presiede la fase finale del giudizio, di sospendere la decisione. E alcuni parlamentari del Pt hanno annunciato che ricorreranno alla commissione per i diritti umani dell’Osa per far sospendere la procedura.

La relazione di Anastasia non ha accluso come prova la registrazione video, diffusa dai media, in cui Temer e l’ex presidente della Camera Eduardo Cunha (ora dimissionario perché accusato di vari reati) mostravano chiaramente il loro intento: liberarsi della presidente per tutelare i loro affari e quelli dei loro terminali esterni. Tre ministri del gabinetto Temer si sono dimessi per le accuse di corruzione e distrazione di soldi pubblici. Uno di loro, Romero Juca, ha ammesso che il golpe parlamentare era stato organizzato per mettere fine all’inchiesta Lava Jato, la tangentopoli brasiliana in cui sono implicati circa 50 politici, a partire da Temer.

«Si sta svendendo il paese ai mercati finanziari internazionali», ha detto Roberto Requiao, uno dei senatori del Partito del movimento democratico brasiliano (Pmdb, a cui appartiene Temer) contrario all’impeachment. Il processo – ha affermato Requiao – dev’essere annullato, Rousseff dev’essere reintegrata nelle funzioni e si devono indire nuove elezioni: perché 35 degli 81 senatori non avrebbero dovuto votare, in quanto si trovano nella lista Odebrecht. Secondo l’imprenditore Marcelo Odebrecht, condannato in primo grado e collaboratore di giustizia, Temer, il suo capo dei ministri, Eliseu Padilha, e il ministro degli Esteri José Serra, hanno ricevuto finanziamenti illegali e tangenti dalla grande impresa che ha ereditato.

Temer – ha affermato Lindbergh Farias, del Pt – se viene confermato alla presidenza potrà così salvarsi dalla magistratura e proteggere anche il suo compare Cunha, che ha minacciato di vuotare il sacco qualora si pensasse di scaricarlo: «Questo – ha detto – è uno dei giorni più tristi della storia, perché si sta legittimando un golpe delle oligarchie che non hanno accettato la sconfitta elettorale».