Nel Vietnam di palazzo Madama il governo va sotto su un punto fondamentale. I due emendamenti soppressivi dell’articolo 4 del disegno di legge di riforma Rai, presentati da Sel, M5S, Lega e Fi ma anche dalla minoranza del Pd, non sono un particolare. Affondano la riforma nel suo elemento strategico: sottraggono la delega in bianco al governo per quanto riguarda il canone Rai e il riordino delle emittenti locali. Come dire, tutto quel che nel testo del governo esulava dalla riforma della governance.

Sono stati i voti del Pd a far pendere la bilancia a favore dell’emendamento soppressivo, accolto con 121 voti contro 118. L’incidente, per gravità, va molto oltre il pur corposo merito, che verrà probabilmente recuperato alla camera, proprio perché rivela quanto incontrollabile sia ormai il partito che Renzi guida ma che non è il suo: 19 senatori Pd hanno votato contro la delega al governo, 11 non hanno partecipato al voto. Nel gruppo di sostegno verdiniano, che avrebbe potuto ribaltare il risultato, hanno votato contro il governo i soli 2 senatori presenti: gli altri 8 non c’erano. Brunetta esulta via tweet: «Verdiniani o non verdiniani la maggioranza non c’è più».

Dagli spalti renziani la reazione è furiosa. «La minoranza dem pensa alla propria corrente. Noi al Paese», cinguetta la vicesegretaria Serracchiani. Orfini, il presidente, è più duro: «Così si lavora per smontare un partito». Il pasdaran Giachetti, invece, invoca la pena capitale: «Per quanto si deve sopportare questo atteggiamento irresponsabile? In queste condizioni, meglio andare al voto». Per il resto è un coro, affamato di decapitazione.

Il capo non parla, ma è anche lui furioso. Il ciclo nero prosegue senza che nessuno sprazzo di luce buchi i nuvoloni densi: un giorno sono i tagli sulla salute, il giorno dopo il salvataggio di Azzollini, adesso lo scivolone del tutto imprevisto sulla Rai, e dietro l’angolo uno scontro frontale sulle riforme istituzionali in cui, di nuovo, il dissenso della minoranza Pd potrebbe rivelarsi esiziale. Se opterà per una soluzione draconiana, come vorrebbero i duri della sua guardia di ferro, o se rinvierà lo showdown non è ancora certo. Ma è di giorno in giorno più tentato dal pugno di ferro.

Solo che la guerra all’interno del Pd rischia di oscurare il merito della vicenda, facendo così fare ai dissidenti la figura dei guastatori pronti a cogliere ogni scusa pur di fare danno. Ma la riforma Rai non è una scusa. Il governo, tanto per cambiare, ha chiesto una delega in bianco su un tema tanto delicato da chiamare in causa la stessa sorte del servizio pubblico: il reperimento delle risorse. Ha squadernato una riforma del servizio pubblico che non dedica un rigo alle questioni fondamentali, quelle su cui si interrogano più o meno tutti i principali governi d’Europa: il ruolo del servizio pubblico oggi, la selezione dei contenuti, i rapporti di interazione con gli altri media, cioè con la rete. La riforma di Renzi consiste tutta e solo nel consegnare al governo, attraverso la figura di un amministratore delegato promosso a super-direttore e direttamente collegato all’esecutivo, il controllo sul servizio pubblico e, attraverso la delega bocciata ieri, il potere decisionale sulle risorse.

Allo stesso tempo, però, la riforma conferma in pieno il duopolio. Proprio ieri, prima del fattaccio di palazzo Madama, la commissione di vigilanza Rai, contro il parere del presidente M5S Fico, aveva votato a favore di un immediato rinnovo del cda con le norme della Gasparri. I sette consiglieri di nomina parlamentare verranno eletti martedì prossimo. Già giovedì potrebbero eleggere anche il presidente del cda. I voti a favore sono arrivati solo da due partiti, che sommati bastano a fare maggioranza nel cda: il Pd e Fi. Da giorni le forze d’opposizione, e in particolare la capogruppo fittiana Bonfrisco, ripetono che il patto del Nazareno, uscito, dalla porta, rientra così dalla finestra. Impossibile dar loro torto.

È vero che il governo, per una volta, sulla Rai non ha messo la fiducia. Ma è anche vero che ha imposto di fatto un estremo contingentamento dei tempi, che finisce per sortire lo stesso effetto. Inutilmente la presidente del Gruppo Misto-Sel De Petris, e poi tutti i gruppi d’opposizione avevano chiesto, ancora mercoledì sera, di allungare i tempi invece di chiudere oggi, e lavorare sul tema con la serietà che richiederebbe. Invece, ancora una volta, il governo ha scelto la prova di forza, con esiti disastrosi. «Procedere a testa bassa porta sempre a sbattere», commenta dalla minoranza Pd il senatore Corsini.