L’abbandono che minaccia Venezia come una desolante spada di Damocle ha una rappresentazione ineluttabile al Lido. Sulla striscia di terra che chiude la laguna al mare incombe l’oblio: l’Hotel Des Bains, ingombrante fantasma di antichi fasti (e di Morte a Venezia) si erge muto sul lungomare svuotato e sbarrato, crepuscolare come nelle opera di Thomas Mann e Luchino Visconti. Sulla punta settentrionale dell’isola, il vecchio aereporto Nicelli è un ombra di quella prima aerostazione del paese che dal 1935-65 fu lo scalo principale della città. Accanto alla sua pista in erba, l’ex caserma Pepe col suo impianto tardo cinquecentesco testimonia il proprio passato come base dei lagunari mentre i rovi divorano la vecchia piazza d’armi e si insinuano per finestre spalancate. E non lontano, accanto alla spiaggia pubblica, c’è il complesso più spettrale: l’Ospedale al Mare.
Nato come avanguardista sanatorio, sostituì negli anni 20 il vecchio Ospizio Marino che in questa estremità settentrionale dell’isola era stato in funzione dal tardo ottocento. Il nuovo centro di elioterapia e talassoterapia marina affacciato al mare aveva 33 padiglioni su oltre 2 ettari di terreno, un refettorio, officine, una biblioteca, una scuola elementare e la chiesetta di Santa Maria Nascente. E un teatro art nouveau affrescato da Giuseppe Cherubini per le rappresentazioni atte a portare sollievo agli animi dei pazienti, finanziato da una colletta pubblica e intitolato al filantropo Mario Marinoni. Rimasti in funzione fino agli anni 90 i padiglioni sono oggi gusci spalancati in una giungla di erbacce. Negli antichi piazzali sono ancora visibili antichi arredi e apparecchiature: quello che non è stato razziato dai cacciatori di rame e vandali assortiti.
Dalla chiusura, seguita all’accorpamento dei servizi sanitari negli ospedali civili delle Fondamenta Nove, quello che era stato fulgido modello di benevolenza sociale si converte in caso paradigmatico di endemica malapianificazione. Sullo fondo di crescenti deficit comunali, il destino dell’ex ospedale si lega alla lunga serie di fallimentari iniziative che dovrebbero risollevare le sorti di questa piccola «long island» lagunare il cui elegante passato serve solo a sottolinearne il rapido declino.
Lo stabile viene inesorabilmente risucchiato nel gorgo di scandali che interessano le opere civili della città. Prima ancora che le attività del consorzio Venezia Nuova affossino giunte cittadine, sindaci, governatori e ministri della repubblica per le vicende legate al Mose, si tenta il rilancio del Lido, e della mostra del cinema. Una fotografia del 2008 immortala Giancarlo Galan, Sandro Bondi, Massimo Cacciari e Paolo Baratta alla fatidica posa della prima pietra del nuovo palazzo del cinema e dei congressi che dovrà essere il simbolo della rinascita della mostra e dell’isola. Mai foto-op fu di auspicio peggiore: la posa è l’inizio di uno dei più infausti cantieri nella pur martoriata storia delle opere pubbliche italiane.
Per finanziare l’opera si pensa uno stratagemma: il comune acquista il vecchio ospedale dalla ASL ne cambia la destinazione d’uso a ricettivo-turistico, triplicando il valore dell’immobile, e a sua volta la vende a Est Capital. Una cordata finanaziaria (guidata da un ex assessore della giunta Cacciari, Gianfranco Mossetto) che ne progetta la conversione in condomini residenziali di lusso con darsena private.
Convertito l’ospedale in un mastodontico bancomat, più a sud si cominciano i lavori per il nuovo palazzo del cinema. Per costruire le fondamenta viene abbattuta la pineta antistante il casinò littorio di cui viene anche distrutta la scalinata frontale. Senonché gli scavi portano alla luce i resti della antica fortezza veneziana delle Quattro Fontane, e se non bastasse scoprono anche depositi di amianto residui di dicariche abusive. Tutto si blocca e comincia un groviglio di vertenze e contenziosi che paralizzano il cantiere. Per sette anni la gigantesca voragine rimane aperta come una ferita esposta all’universale biasimo e ludibrio delle migliaia di giornalisti che ogni anno arrivano per il festival. Come operazione di immagine, per un’opera che era stata inserita come celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia non c’è male.
D’altra parte considerato il disastro Mose/Venezia Nuova che implode in una maxi indagine culminata nell’ondata di arresti e nella fuga in California di Giovanni Mazzacurati presidente del consorzio e indiziato di essere regista di una colossale opera di corruzione, il «buco della vergogna» sarebbe il minore dei mali. Ma è il simbolo più tangibile del disastro Lido, un’isola che neanche il commissario speciale nominato per tentare di mettere ordine sembra riuscire ad districare dall’endemica malagestione.
È di quest’anno è una delle rare notizie positive: la nuova amministrazione comunale del sindaco Brugnaro riesce a chiudere i pluriennali conteziosi d’appalto e infine risistemare l’area della mostra. Il buco viene infine riempito e si costruisce la nuova sala giardino, il «cubo rosso» inaugurato il mese scorso è costato 500 mila euro. Tutta la vicenda del buco che lo ha preceduto invece è costata 32 milioni di euro.
Nel frattempo anche la Est Capital si è aggiunta alla lunga lista di fallimentari iniziative legate al «rilancio»: la finanziaria viene commissariata e l’ospedale, col suo teatro, viene nuovamente rivenduto, ceduto questa volta alla Cassa Depositi e Prestiti – la holding del ministero dell’economia con mastodontiche proprietà immobiliari in tutto il paese. Il complesso è nuovamente parcheggiato in balia di un degrado sempre peggiore che fa presagire uno scivolamento verso l’inevitabile abbattimento. Vittima sacrificale di un sistema di speculazioni in cui sono avvinghiate amministrazioni pubbliche e interessi privati – sempre davanti a quelli della collettività.