Colori sontuosi, immagini bibliche e eroine che conquistano la scena con la baldanza di chi, muovendosi elegantemente tra le quinte della Storia, non esita a uccidere avversari invincibili. Gli scorci delle narrazione di Artemisia Gentileschi sono set teatrali di cruda realtà (spesso decapitazioni) che alla sensualità del vivere con una ostentata aderenza ai fatti uniscono l’astrazione di un pensiero vivace.

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Artemisia (1593-1653), figlia primogenita del pittore Orazio Gentileschi (esponente di primo piano del caravaggismo romano), affrontò il mondo culturale con le armi affilate del cavalletto e della tavolozza: fu a lei e non ai sei eredi maschi che il padre trasmise le conoscenze artistiche. E sempre a lei riconobbe ogni onore uno storico come Roberto Longhi nel 1916: «Artemisia Gentileschi, dal nome favoloso e serico come le pitture del padre, ci pare l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità». Eppure dovette emigrare a Firenze, nel 1616, per accedere agli studi accademici: fu la prima ad assicurarsi una «stanza tutta per sé» come allieva. A Roma, le donne non erano ammesse. Dopo quel viaggio, condurrà un’esistenza caratterizzata da grandi spostamenti, seguendo committenze e promesse di lavoro che la porteranno non solo a Napoli, città d’elezione, ma anche a Londra, dove nel 1638 Artemisia raggiunse il padre, presso la corte di Carlo I.

La mostra che si inaugura oggi a Roma, presso Palazzo Braschi (fino al 7 maggio 2017, copre l’intero arco temporale della vicenda professionale di Artemisia Gentileschi, in un confronto serrato con l’arte del suo tempo: sono circa cento le opere esposte, provenienti da collezioni private e da importanti musei internazionali. L’esposizione (catalogo Skira), curata da Nicola Spinosa per la sezione napoletana, da Francesca Baldassari per la parte fiorentina e da Judith Mann per quella romana, propone capolavori celeberrimi come Giuditta che taglia la testa a Oloferne (Museo di Capodimonte), ma anche Ester e Assuero del Metropolitan Museum di New York o l’Autoritratto come suonatrice di liuto del Wadsworth Atheneum di Hartford Connecticut, oltre alle opere dei «colleghi» seicenteschi.

Fu una vita tumultuosa quella di Artemisia, segnata precocemente dallo stupro del pittore Agostino Tassi (1611), cui seguì un celebre processo. Un percorso a ostacoli superato facendo leva su un desiderio di libertà sempre praticato e su un talento fuori dal comune. Basti osservare l’audacia compositiva e il ritmo vorticoso del corpo nella prima opera attribuita ad Artemisia Gentileschi, quella Susanna e i vecchioni dipinta probabilmente nel 1610.