La morte di André Green, nel gennaio del 2012, sottrasse alla psicoanalisi uno degli ultimi interpreti al tempo stesso fedeli e originali del pensiero di Freud, sottoposto – negli ultimi decenni – all’ondata dei revisionismi che hanno nutrito la favola postmoderna, già di per sé sinistra e ora finalmente avviata al suo epilogo. La decisione di dedicarsi alla sofferenza mentale era venuta a Green dalla convivenza con il lutto inconsolabile di sua madre, che perse la sorella, bruciata viva in un incidente. Quando approdò all’ospedale parigino di Sainte-Anne a metà degli anni ‘50, ebbe modo di conoscere grandi neurofisiologi, psichiatri, psicoanalisti, fra i quali il medico catalano Henry Ey, che iniziò Green alla psichiatria come esercizio dialettico, e quella figura di erudito che fu Julian De Ajuriaguerra, il quale esercitò un ruolo mediatore nell’incontro con altri protagonisti delle ricerche sulla psiche: da Jean Delay a Lagache a Lacan, a Nacht a Male a Lebovici, a Minkovski.
Furono per Green, come lui stesso ha ricordato nella autobiografia titolata Uno psicoanalista impegnato (Borla, 1995) gli anni più belli della sua vita: il duplice interesse per le scienze biologiche e per la filosofia trovava, fra le pareti dell’ospedale di Sainte-Anne, un terreno di incontro ideale, i cui riferimenti principali erano il pensiero di Bergson, insieme alle teorie freudiane e alla tradizione fenomenologica della psichiatria di Jaspers. Poi, come testimoniano le opere degli anni a venire, l’interesse di Green avrebbe ripercorso più volte l’opposizione dialettica tra il pensiero di Melanie Klein e quello di Jacques Lacan, del quale già dal gennaio del ’61 aveva cominciato a frequentare i seminari, probabilmente come reazione alla morte del suo amatissimo analista, Maurice Bouvet. Fu nel luglio di quello stesso anno che avviò i suoi primi scambi con gli analisti inglesi: conobbe Winnicott, Herbert Rosenfeld, Hanna Segal, John Klauber, e di sfuggita Bion.
«L’impatto con loro – raccontava quando lo andai a trovare nel suo studio a Parigi, nel dicembre del 1999 – provocò in me uno shock altrettanto importante di quello indotto dal pensiero di Lacan, ma con una differenza: i suoi seminari erano un piacere per la mente, gli ultimi minuti intellettualmente abbaglianti, ne uscivamo in una sorta di trance; ma non avrei potuto dire che tutto questo mi sarebbe stato d’aiuto con i miei pazienti. Mentre quando frequentavo gli analisti inglesi, quando leggevo o ascoltavo i loro commenti, allora mi dicevo, ecco questa è l’analisi: sentivo che le loro discussioni mi mettevano davvero in contatto con la realtà clinica». Di quelle influenze tengono conto anche i testi appena tradotti da Cortina con il titolo La clinica psicoanalitica contemporanea (introduzione e cura di Andrea Baldassarro, prefazione di Fernando Urribarri, pp. 206, euro 25,00) che raccolgono saggi d’occasione scritti tra il 1997 e il 2000, licenziati dall’autore in quello che sarebbe stato l’anno della sua morte.
L’esordio è polemico: Green prende le distanze dal modo in cui la crisi della psicoanalisi venne dichiarata per la prima volta ufficialmente nel corso del congresso dell’International Psychoanalitical Association a Barcellona, nel ’97, e evidenzia, innanzi tutto, la conflittualità intrinseca alla figura dell’analista, la cui prassi e la cui consapevolezza del suo stesso lavoro andrebbero continuamente reinterrogate. Se, fin dagli esordi, le teorie freudiane sull’inconscio suonarono come un affronto per il pensiero filosofico, ora – e ancora più radicalmente – ci si industria a sbarazzarsi di questo incomodo, che nel tempo si era provati a sostituire con teorie più abbordabili, la più nobile delle quali fu probabilmente lo strutturalismo: l’inconscio veniva dato per scontato ma al tempo stesso era sottoposto a una formalizzazione che lo svuotava dei suoi contenuti, dalla pulsione alla rimozione.
Già al tempo in cui Green scriveva, circa vent’anni fa, le teorie cognitiviste imponevano all’opinione pubblica il loro disprezzo verso l’esistenza di uno psichismo incoscio, autorizzando l’autore del saggio in questione a lamentare «il fallimento del concetto di umanità», e a dare la battaglia ideologica dell’umanesimo come perduta. Foucault gli risponderebbe che « il nostro compito è liberarci definitivamente dell’umanesimo e, in questo senso il nostro è un lavoro politico (…) lo sforzo compiuto dalle persone della nostra generazione non è rivendicare l’uomo contro il sapere e contro la tecnica, ma è proprio quello di dimostrare che il nostro pensiero, la nostra vita, il nostro modo di essere, persino il nostro modo di essere più quotidiano, appartengono alla medesima organizzazione sistematica e quindi dipendono dalle stesse categorie del mondo scientifico e tecnico.» Ma le preoccupazioni di Green erano ben motivate dalle derive dello stesso contesto psicoanalitico, dove si stava facendo spazio la tendenza a demolire i pilastri della impalcatura freudiana, primo tra tutti il concetto di pulsione, con il pretesto che la scienza contemporanea non fosse mai arrivata a convalidarne il contenuto; e si provvedeva, per di più, a indebolire il ruolo della sessualità, che già a Freud aveva causato non poche confutazioni.
La militanza di Green per una psicoanalisi non depurata dei suoi concetti basilari passa – in questi saggi – per una riconsiderazione della importanza del setting come campo di forze, dove ha un ruolo fondamentale il transfert che, attirando una parte della libido sulla persona del medico, consente al paziente di rendere presenti e disponibili all’analisi «nuove edizioni» dei suoi conflitti interni, così da indirizzarli verso un esito proficuo. Ma Green si concentra soprattutto su quella parte del transfert che permette, attraverso l’affetto, di verbalizzare anche tutti i movimenti psichici che «comportano qualcosa che non è dell’ordine della parola». Il setting illumina – scrive Green – la «follia privata» dell’analizzando e «la sua capacità di mettere in scena la propria drammaturgia personale».
Quanto all’analista, la sua posizione è contraddittoria: «è lì e non è lì, è allo stesso tempo presente e assente», si offre come «oggetto paradossale di seduzione», ma si rifiuta alle conseguenze di ciò che ha generato. «Il suo ruolo consiste nel catturare il senso e nel dargli forma».
L’insistenza con la quale Green si adopera a sottolineare l’importanza del setting, descrivendolo come un gioco linguistico dove agiscono forze e rappresentazioni psichicamente investite, che donano al senso «un investimento carnale, pulsionale», è anch’essa testimonianza di una fedeltà non dogmatica ai concetti fondativi della psicoanalisi. Sempre, mentre ribadisce la centralità di alcune teorizzazioni freudiane, lo psicoanalista francese introduce alcuni piccoli scarti descrittivi che ne illuminano ulteriormente la funzione, o il significato: chiarisce, per esempio, come ciò che gioca un ruolo decisivo nella resistenza dell’analizzando a prendere contatto con le sue dinamiche inconsce sia, più che una riluttanza a tornare sui conflitti del passato, il sentimento della sua impotenza attuale, che proiettandosi retroattivamente su quei conflitti, inibisce la possibilità di riportarli alla coscienza. Se il riferimento al transfert è passato in secondo piano di pari passo con quel revisionismo psicoanalitico di cui Green cerca di sondare le ragioni, anche il controtransfert è un concetto che apparirà meno cruciale, e questo in virtù di alcuni modelli esterni alla psicoanalisi: così come le teorie di Saussure e di Chomsky erano penetrate nel pensiero di Lacan, più tardi il potere performativo di alcuni atti linguistici, teorizzato da Austin poi da Searle, avrebbe influenzato il passaggio dal dire al fare, che si ritrova in alcune proposte dei seguaci di Melanie Klein.
Inoltre, riprendendo la celebre frase di Freud secondo cui il sogno sarebbe la via regia che conduce all’inconscio, Green lamenta una deformazione della vulgata, che ne altera il senso: in realtà, nel raccontare la sua vita onirica, l’analizzando la prosegue da sveglio, consegnando al sogno una seconda vita, che l’alleanza con l’analista nel lavoro dell’interpretazione farà funzionare come chiave per accedere ai luoghi più remoti della psiche.
«L’importante, per noi, è comprendere – scrive Green – che il sogno ha la sua propria luce e che si presenta come doppio del reale al punto da confondersi con esso, mentre nessuna eccitazione dall’esterno viene a stimolare gli organi di senso». Manifestazione di un altro sguardo, il sogno dovrà riflettersi nell’ascolto delle libere associazioni per essere interpretato: è il racconto stesso del sogno, la sua verbalizzazione, a rendere percettibili i nostri processi di pensiero, «in relazione con il ricordo di questa percezione senza luce del sogno».
Nel ripercorrere i concetti chiave della psicoanalisi, Green tiene a riabilitare l’imprescindibile legame del senso con la forza – ossia quel movimento psichico strettamente legato al suo radicamento nel corpo, che muovendo dall’interno mira a una sorgente di soddisfacimento esterna. Se c’è un motivo per cui gli analisti devono studiare la sessualità al di là di ogni preconcetto – scrive André Green – è perché essa «è la sola funzione dell’esistenza umana che esige un oggetto, un altro simile». Il bisogno di aria e di nutrimento accomuna le esigenze del neonato a quelle degli altri animali, ma per gettare le basi della sua «gioia di vivere» gli è indispensabile l’altro da sé. «L’amore e il senso – conclude Green – sono forse una cosa sola per l’uomo».