Davvero felice il breve ma profondo Il trasformista, tra le ultime fatiche editoriali di Giuseppe (Pippo) Civati (Indiana Editore, pp. 108, euro 12,50). Denso nei contenuti e ricco nella scrittura, il volume del dirigente del Partito democratico più critico e lontano dal mainstream prevalente ci offre spunti notevoli, qualche volta deliziosi, per e nel dibattito pubblico.

Scrive nell’introduzione Stefano Bartezzaghi che «Civati si propone qui ancor prima che come uomo politico come lettore del Politico». Vero. Del resto, oggi più che mai – in assenza di vere ideologie e di sistemi complessi di riferimento – la ri-costruzione della Politica richiede una vera e propria ricognizione dei mutamenti antropologici; chi intende vivere un’esperienza non effimera nella sfera pubblica non può che essere un «esploratore». Come ha spiegato in diversi scritti Marc Augé, non per caso antropologo e cultore dei movimenti della società.

Il trasformista per antonomasia è stato Leopoldo Fregoli, capace in scena di cambiare abito e trucco continuamente, vero Zelig e anticipatore di modelli interpretativi applicati ad opere (vedi nel teatro) più impegnate: quasi a dire che – sul palco – vero, verosimile e falso si intrecciano e non sono facilmente identificabili. Ma nella rappresentazione, non nella rappresentanza, dove rigore ed affidabilità dovrebbero invece stare al posto di comando.

La politica spettacolo di Guy Debord (1967) è diventata costruzione dello spettacolo politico: tendenza – quest’ultima – descritta con parole anticipatrici da Murray Edelman (1988), che accende i riflettori della critica (parla degli Stati Uniti, ma il vento è globale) rispetto al conformismo vestito di «innovazione» delle leadership nell’era mediatica, laddove le differenze tra i candidati sono minime e altri – non i contenuti e i programmi – divengono i riferimenti e le scelte. Nell’artificio. Con tanto di inesorabile corsa al «centro» e alla facile omologazione culturale. In fondo, i trasformisti sono ladri di senso, sostiene Civati, citando Giosuè Carducci a sua volta evocatore di Dante, che mette giustamente la vasta categoria nell’Inferno. Ah, se ci fosse davvero.

La pratica delle giravolte ha un recente autorevole riferimento in Agostino Depretis, nel suo sempre attuale discorso di Stradella di fine Ottocento, dove voltafaccia e cinici zig zag vengono accettati e promossi perché «I partiti politici non si debbono fossilizzare né cristallizzare». Un alibi insidioso, che oggi è divenuto una ripetitiva chiacchiera retorica. Sottilmente autoritaria, come affermerebbe Gilles Deleuze. Persino il «Partito della nazione», libera (ed errata) interpretazione di uno scritto di Alfredo Reichlin, è solo un contenitore di potere senza ideali e porto metaforico per l’attracco di tutti gli opportunismi. Altro che Razzi e Scilipoti, la cui azione – alla luce dei circa duecento cambi di casacca nella legislatura in corso – appare timida e assai meno «professionale».
Naturalmente, a fare le spese dell’attuale degenerazione è la sinistra cui, per sopravvivere, viene richiesto di assumere le sembianze della destra: sul lavoro, sulle questioni istituzionali, sulla tutela dell’ambiente, e tanto d’altro. Echeggiano – nelle pagine di Civati – esempi di triste vita vissuta in una minoranza: non solo numerica. Dal «Jobs Act», all’«Italicum», alla modifica del bicameralismo, al terribile (grandi opere) «Sblocca Italia». E il partito democratico è oggi una sorta di «Grand Old Party», oltre Tony Blair. La stessa semantica del linguaggio è stata rovesciata. Un caso per tutti: «riforma» significa effettivamente il contrario, con La manomissione delle parole tratteggiata da Gianrico Carofiglio (2011). E tutto ciò, nota Nadia Urbinati (2014) porta all’astensionismo silenzioso e rancoroso. E, con ampio ed efficace riferimento alle Metamorfosi di Ovidio, il trasformismo è tratteggiato nel divenire la cifra prevalente del discorso pubblico.

Il «pessimismo leopoldiano» dell’autore si riferisce all’amara parabola dei propositi enunciati sul nascere degli appuntamenti della vecchia stazione fiorentina, via via degenerati in un «manifesto» moderato, con l’occhio rivolto alla destra berlusconiana. Neppure la Democrazia cristiana era così, essendo un aggregato centrista, ma con lo sguardo a sinistra, come asserivano i dirigenti storici. Un caso di scuola del percorso del presidente-segretario Renzi (il protagonista implicito e il sottotesto costante) è l’intervento a «Che tempo che fa» di solo pochi mesi fa. Quando il premier difendeva l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, poi abiurato e travolto dalla svolta moderata e conservatrice. Ovviamente, senza alcun cenno autocritico. La normalità del trasformismo. Sempre chiamato «innovazione». Antonio Gramsci odiava, giustamente, gli «indifferenti». E, nel nostro piccolo, ora odiamo i «trasformisti». O la Politica si coniuga all’etica, o muore davvero – relegata a inconsistente simulacro. Ecco, il libro di Civati fa pensare, mette in ordine le idee, usa con eleganza l’ironia e il sarcasmo. Per trattare di cose terribili. Orrende.