Centinaia di combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sono rimasti uccisi e centinaia feriti in una settimana di raid dell’aviazione turca contro le basi dei ribelli. Colpiti anche villaggi e la popolazione kurda. Tra i feriti ci sarebbe anche Nurettin Demirtas, fratello del leader della formazione curda Partito democratico del popolo (Hdp) Selahattin Demirtas – che ha avuto una straordinaria affermazione alle ultime elezioni turche con il suo 13%, impedendo così di fatto la maggioranza parlamentare all’Akp di Erdogan e per questo messo in questi giorni sotto accusa, lui e il suo partito.

Sta avvenendo, sotto i nostri occhi, una carneficina. Che ci riguarda direttamente. Infatti l’offensiva militare – ironia della sorte l’agenzia parla di una inesistente offensiva contro l’Isis – è scattata dopo il vertice della Nato di Bruxelles di nemmeno una settimana fa, di fatto convocato da Ankara per avere partecipazione e avallo alla sua nuova guerra contro i kurdi, fatta con la scusa di attaccare anche, per la prima volta le postazioni siriane dello Stato islamico. La partecipazione atlantica piena non c’è, ma l’avvallo sì e, soprattuto, c’è quello degli Stati uniti.

Ora dunque con l’applauso dell’Alleanza atlantica i cacciabombardieri turchi fanno a pezzi i combattenti della sinistra turca, vale a dire i militanti che quasi da soli finora combattono con le armi in pugno in Siria e in Turchia contro le milizie jihadiste dell’Isis. Milizie invece sostenute e finanziate negli ultimi tre anni proprio da Ankara che ha addestrato tutte le formazioni ribelli siriane – compresa Al Nusra, vale a dire Al Qarda, nelle sue basi a partire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occidentali e come ha denunciato proprio la sinistra turca.

È stato scritto che la svolta «ambigua» di Erdogan sarebbe derivata dall’impossibilità per Washington di sopportare ancora per troppo tempo che un proprio alleato potesse mostrare simpatie per un gruppo terrorista come l’Isis che gli americani ora sono impegnati a distruggere. Quando mai? Il fatto è che la Turchia, alla frontiera turbolenta della Siria in guerra, ha addestrato, finanziato e sostenuto i jihadisti proprio su mandato della coalizione degli Amici della Siria, guidata proprio dagli Stati uniti e dall’Arabia saudita insieme alle petromonarchie mediorientali.

Così adesso anche la Casa bianca (dopo l’esperienza sanguinosa di Bengasi dell’11 settembre 2012) corre ai ripari e bombarda da mesi gli stessi jihadisti che, come in Libia, ha usato per destabilizzare l’area. E questo grazie ad Ankara che mette a disposizione la sua base di Incirlik, mentre gli americani chiudono tutti e due gli occhi sul massacro della sinistra kurda.

Ecco dunque il nuovo ruolo dell’islamista moderato Erdogan, il sultano atlantico. Altro che «distratto» membro della Nato.

Cinque anni fa, sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax ottomana», dalla Bosnia a Gaza,, dall’Azerbaijan alla nuova Libia in funzione anti-Iran. Ora invece, per accrditarsi con l’Occidente, gioca la carta della «guerra ottomana».

Con una spina nel fianco però, che deve proprio levarsi: il popolo kurdo. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale – nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria – hanno attivato sia il protagonismo jihadista, prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica, e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria, Turchia e Iraq (pieno di petrolio e nemico giurato del Pkk).

Fermare con le armi il contagio indipendentista e laico della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione politico-sociale del Rojava in Siria) è l’obiettivo di Erdogan. Ma anche della «nostra» Alleanza atlantica che applaude ogni volta che un F16 decolla per bombardare. L’Italia atlantica, che si prepara ad una nuova avventura militare in Libia, di Pkk del resto se ne intende: ha consegnato alle «alleate» galere turche il leader Ocalan venuto da noi per trattare la pace.